Come si calcola l’assegno di mantenimento dei figli?

Una delle questioni da affrontare nella separazione, anche dei conviventi di fatto, è il contributo al mantenimento dei figli.
L’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli è un obbligo di legge inderogabile ed irrinunciabile. Esso è parte integrante della responsabilità genitoriale, ovvero dell’insieme di diritti e doveri che sorgono in capo ai genitori per il solo fatto della procreazione.

Contribuire al mantenimento dei figli significa provvedere non soltanto ai bisogni strettamente alimentari della prole, ma a tutte le necessità di cura ed educazione dei figli, e dunque alle esigenze abitative, scolastiche, sanitarie, sociali, ricreative, sportive, ecc. ovvero a tutto ciò che serve al figlio per crescere conservando, anche nella separazione dei genitori, lo stesso tenore di vita tenuto quando la famiglia era unita.

L’obbligo di mantenimento perdura dalla nascita del figlio fino alla sua piena indipendenza economica, cioè fino a quando il figlio non dispone di redditi propri ed è autonomo economicamente. L’obbligo dunque non viene meno automaticamente quando il figlio diventa maggiorenne, ma perdura anche oltre la maggiore età, fino a che il figlio non è in grado di mantenersi da solo.

Ma come si misura l’obbligo di mantenimento?

Il principio di proporzionalità

Il criterio di riferimento principale per la ripartizione tra i genitori dell’obbligo di mantenimento dei figli è il principio di proporzionalità: ciascuno dei genitori è tenuto a provvedere in proporzione alle sue sostanze, comprensive dei redditi (stipendio), del patrimonio (beni posseduti) ed anche della capacità di lavoro, professionale o casalingo.
Tale principio, affermato dall’art. 316 bis c.c., è ribadito dall’art. 337 ter c.c. che regola l’esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione dei genitori, coniugati e non.

Gli altri criteri per la quantificazione del mantenimento

L’art. 337 ter c.c.  stabilisce che “ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito” .
La norma elenca i parametri di riferimento che il giudice e le parti devono usare nella quantificazione dell’assegno mensile per il mantenimento dei figli, parametri che sono volti – precisa la norma – a realizzare il principio di proporzionalità, e più esattamente:

1) le esigenze attuali del figlio;
2) il tenore di vita goduto dal figlio quando la famiglia era unita;
3) i tempi che il figlio trascorre con ciascun genitore;
4) le risorse economiche dei genitori;
5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura che ciascun genitore svolge.

L’assegnazione della casa familiare

Ulteriore elemento di valutazione economica, ai sensi dell’art. 337 sexies c.c., è costituito dall’assegnazione della casa dove la famiglia ha vissuto fino alla disgregazione del nucleo.

Per legge, in caso di separazione dei genitori la casa familiare viene assegnata al genitore convivente con i figli, e ciò risponde all’esigenza prioritaria di tutelare i figli e garantire loro di conservare l’ambiente domestico e di vita, evitando loro ulteriori traumatici cambiamenti.

Il genitore cui la casa è assegnata ha il diritto di rimanere a viverci con i figli, disponendo dell’abitazione e di tutti i mobili e gli arredi presenti in casa, anche se l’immobile è cointestato all’altro o di proprietà esclusiva dell’altro.

L’assegnazione, ovviamente, incide sull’assetto economico in quanto per il genitore assegnatario può realizzarsi un risparmio di spesa (dato che rimane nella casa a titolo gratuito), mentre l’altro genitore si troverà a dover sostenere spese abitative per prendere in affitto o acquistare di un altro immobile.

Dell’assegnazione della casa coniugale, dunque, si deve tener conto anche nella quantificazione del contributo al mantenimento dei figli.

Mantenimento diretto o assegno?

Generalmente quanto i genitori si separano viene stabilito un assegno mensile che il genitore che non convive con i figli deve versare all’altro genitore per contribuire al mantenimento dei figli.
La previsione dell’assegno, però, non è obbligatoria: in presenza di determinate condizioni, è possibile non prevedere il versamento dell’assegno, stabilendo che ciascuno dei genitori provveda in via diretta al mantenimento del figlio, facendosi carico delle spese che servono al figlio per il tempo in cui lo ha con sè. Si tratta del cosiddetto “mantenimento diretto“.

Questa soluzione richiede l’accordo delle parti e viene utilizzata quando vi siano determinati presupposti: ad esempio, quando i redditi dei genitori sono equivalenti ed il figlio trascorre tempi paritari con la madre ed il padre.

Quanto viene fissato, l’assegno mensile è soggetto a rivalutazione annuale, vale a dire deve essere aggiornato di anno in anno secondo gli indici di adeguamento ISTAT.

Le spese straordinarie

L’assegno periodico copre il mantenimento ordinario del figlio, vale a dire le spese che necessarie per il sostentamento e le altre spese di natura ordinaria, quali alimentazione, abbigliamento, calzature, spese di vitto ed alloggio, ecc.
A queste si aggiungono le spese straordinarie, ovvero quelle spese che sono legate a particolari esigenze di cura ed educazione dei figli e che hanno natura extra ordinaria, nel senso che non sono previamente prevedibili nè quantificabili e riguardano profili primari della crescita, della salute e della formazione del figlio. Queste spese, essendo imprevedibili ed imponderabili, non possono essere incluse nell’assegno mensile, ma vanno conteggiate e rimborsate separatamente.
Le spese straordinarie non sono specificate dalla legge. La giurisprudenza ha elaborato una serie di criteri di riferimento, che sono stati utilizzati per l’elaborazione di Linee guida – Protocolli applicativi in uso nei diversi Tribunali italiani, ed il cui scopo è fornire ai magistrati ed agli avvocati dei criteri uniformi per individuare le spese straordinarie, in modo da ridurre i possibili contenziosi sulla rimborsabilità o meno di alcune spese.

In generale, sono considerate spese straordinarie, tra l’altro, le spese mediche e specialistiche, comprese quelle odontoiatriche e oculistiche (ad esempio: ticket sanitari, prescrizioni terapeutiche, apparecchi correttivi, ecc.), le  spese per la scuola, l’istruzione e la formazione (ad esempio: tasse di iscrizione, dotazione libraria, materiale didattico, gite, attività integrative, ecc.), le spese per lo sport e per le attività ricreative.

Di norma, le spese straordinarie sono poste a carico di ciascun genitore in misura del 50%, ma è possibile anche prevedere che siano a carico di uno dei due in misura maggiore, così come è possibile suddividerle tra i genitori per tipologia di spesa. Ad esempio, può essere stabilito che la madre di faccia carico delle spese scolastiche e sportive e che il padre si faccia carico delle spese mediche, ecc.

L’interesse del figlio

La legge, dunque, non fissa criteri di calcolo specifici ed automatici, ma indica dei parametri valutazione al quale i genitori ed il giudice devono attenersi per ottenere la corretta quantificazione dell’assegno.

La quantificazione tiene conto dell’interesse primario del figlio e del suo diritto di crescere fruendo di risorse economiche adeguate alle proprie esigenze ed agli standard di vita della famiglia in cui è nato.

Contro la violenza sulle donne: le misure contro i maltrattamenti in famiglia

Oggi è la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, un fenomeno in continua, drammatica crescita che non può e non deve lasciare indifferenti noi operatori del diritto.
Le donne, assieme ai bambini ed agli anziani, sono le principali vittime delle violenze perpetrate all’interno della famiglia. Famiglia che non sempre è il porto sicuro degli affetti, ma alle volte è luogo di violenza, abusi e maltrattamenti.

Per contrastare il fenomeno della violenza domestica nel 2001 è stata varata la legge 154, con cui sono state introdotte specifiche misure a tutela delle vittime di abusi in famiglia (artt. 342 bis e ter del Codice Civile).

Un procedimento rapido e senza eccessivi formalismi

Più esattamente, è stato previsto un procedimento speciale, caratterizzato da particolare speditezza, che permette un intervento tempestivo a protezione delle vittime di maltrattamenti.
Presupposto per l’attivazione di questo procedimento è la sussistenza di un rapporto di convivenza (matrimonio o convivenza di fatto) tra la vittima e l’autore degli abusi.
Il procedimento si svolge davanti al giudice civile e si introduce mediante un ricorso nel quale vanno dettagliatamente indicate le condotte abusanti, supportate da adeguata documentazione (denunce penali, referti medici, fotografie, ecc. ) che dimostri la fondatezza dell’iniziativa.

L’ordine di allontanamento e le altre misure di protezione delle vittime

Di fronte alla condotta di un convivente che sia causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale o alla libertà dei familiari (dunque, non solo aggressioni e violenze fisiche, ma anche costrizioni e pressioni psicologiche), il giudice può emettere, in tempi rapidissimi e anche senza previamente consultare l’altra parte, un provvedimento che ordina al convivente violento la cessazione dei comportamenti abusanti e ne dispone l’immediato allontanamento dalla casa comune.

Il giudice può, altresì, vietare l’avvicinamento alla casa comune ed ai luoghi abitualmente frequentati dai familiari (luogo di lavoro, scuola cui sono iscritti i figli, abitazioni delle famiglie d’origine, ecc.).

Ed ancora, il giudice può condannare il convivente a versare un importo mensile per il mantenimento dei familiari che, diversamente, si troverebbero privi di mezzi di sostentamento.

L’efficacia e la durata delle misure

Il provvedimento antiviolenza è immediatamente efficace, e l’autore degli abusi è tenuto a rispettarlo.

Nel provvedimento il giudice stabilisce le modalità con cui devono essere attute le misure di protezione delle vittime di violenza e può disporre anche l’intervento della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario.

Trattandosi di una misura straordinaria, concepita per intervenire nell’emergenza e porre immediatamente rimedio ai maltrattamenti interrompendo la convivenza, il legislatore ne ha stabilito un limite di durata, ritenendo che, una volta allontanato da casa l’autore degli abusi, la vittima possa attivarsi per far cessare definitivamente la convivenza con gli altri strumenti previsti dall’ordinamento (ad esempio, con la richiesta di separazione personale).

L’ordine di protezione, dunque, può durare al massimo dodici mesi da quando viene adottato (la durata in concreto viene stabilita dal giudice nel provvedimento, tenendo conto delle circostanze del caso specifico) e può essere rinnovato soltanto se ricorrono particolari condizioni.

Scelta del genitore collocatario: al centro l’interesse del minore

Il criterio cui i giudici devono improntare la decisione sull’affidamento e la collocazione dei figli è esclusivamente l’interesse del minore. Nella scelta del genitore collocatario, cioè del genitore con cui il figlio andrà a vivere in via prevalente, ed ugualmente nella scelta del genitore cui affidare i figli dopo la separazione, madre e padre sono sullo stesso piano.

Il principio della maternal preference, vale a dire il principio della prevalenza della madre per i bambini di età scolare e prescolare non ha alcun peso giuridico: al contrario, l’art. 337 ter c.c. e la Costituzione assegnano rilievo al principio della bigenitorialità, e dunque della neutralità del genitore affidatario.

Queste le valutazioni del Tribunale di Milano in un recente decreto con cui è stata disposta la collocazione di un minore presso il padre, ritenuto genitore più maturo della madre.

Il provvedimento afferma a gran voce la parità genitoriale: il padre, al pari della madre, può essere collocatario dei figli quando ciò corrisponde all’interesse dei figli stessi.
Nella decisione sull’affidamento e sulla collocazione dei figli non può essere solo il genere femminile o maschile a determinare la prevalenza per l’uno o l’altro ramo genitoriale: vanno valutate le risorse genitoriali di ciascuno dei genitori e la decisione deve ricadere sul genitore – madre o padre che sia – che esercita in modo più maturo la responsabilità genitoriale.

Il caso

La vicenda giunta all’esame dei giudici milanesi riguardava una minore affidata al Servizio sociale e collocata in via prevalente presso il padre in forza di provvedimento del Tribunale dei Minorenni. A distanza di qualche tempo, la madre si era rivolta al Tribunale chiedendo la modifica delle regole stabilite dal giudice minorile, ed in particolare che la figlia venisse collocata presso di sè.

Il Tribunale ha valutato attentamente le risorse genitoriali di ciascuno dei genitori, ascoltandoli direttamente ed incaricando i Servizi sociali di svolgere accertamenti sulla relazione tra la bambina ed i genitori, anche mediante audizione della minore (delegata ai Servizi in considerazione dell’età e delle condizioni di fragilità della minore).

Dall’esame della relazione informativa dei Servizi sociali il Tribunale ha ritenuto di escludere al momento il rientro della minore presso la madre, poichè poco collaborante con gli operatori (la madre aveva tenuto un atteggiamento estremamente critico, rendendo dichiarazioni al confine del disagio psichico e manifestando ambivalenza nei confronti degli interventi degli operatori) e non in grado di garantire alla figlia un idoneo ambiente domestico, ossia un ambiente domestico uguale o migliore a quello garantito dal padre.

Per contro, il padre è risultato figura matura nella responsabilità genitoriale, poichè molto focalizzato sull’effettivo interesse della figlia, attento all’educazione, alla salute ed al percorso di vita della minore, e rispettoso del diritto della madre di accedere alla figlia.
Il padre, infatti, non aveva ostacolato il rapporto tra la minore e la madre ed anzi, aveva favorito il rapporto, ampliando i tempi delle visite della madre e occupandosi in prima persona dell’accompagnamento e del prelievo della bambina in occasione degli incontri con la mamma. Anche sotto questo profilo, dunque, il padre si era dimostrato genitore adeguato a tutelare appieno l’interesse della figlia.

Il ricorso della madre volto ad ottenere la collocazione abitativa della figlia è stato rigettato. La minore è rimasta affidata ai Servizi sociali e continuerà a vivere con il padre.

Fonte: Tribunale di Milano, decreto 19.10.2016 (est. Buffone).

Sanzioni per il genitore che viola il dovere di favorire il rapporto tra il figlio e l’altro genitore

Anche se i genitori sono separati, il figlio ha il diritto di mantenere e sviluppare un rapporto continuativo ed equilibrato con entrambi e di ricevere cura, educazione, istruzione ed assistenza morale da entrambi (art. 337 ter c.c.).

Il genitore separato che convive con il figlio ha il dovere di non contrastare e di facilitare il rapporto con l’altro genitore: la violazione di tale dovere genitoriale contrasta con i diritti del figlio e può essere sanzionata ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c.

Come nel caso recentemente deciso dal Tribunale di Roma con la sentenza n. 18799 pubblicata l’11 ottobre 2016.

 

Il caso

Con la sentenza citata, il Tribunale di Roma ha censurato il comportamento di una madre, genitore collocatario, che non si era adoperata fattivamente per ristabilire il rapporto tra il figlio ed il padre, ed anzi aveva ostacolato il funzionamento dell’affidamento condiviso con atteggiamenti sminuenti e denigratori della figura paterna.

Di fronte alla condizione di disagio e sofferenza del figlio, accertata nel procedimento anche mediante la sua audizione, i giudici hanno ritenuto di intervenire d’ufficio, senza domanda di parte, irrogando alla signora le sanzioni di cui all’art. 709 ter c.p.c.

La madre è stata, infatti, ritenuta responsabile per non essersi attivata in concreto per riavvicinare il figlio al padre, per non aver tenuto un comportamento propositivo volto al un giusto recupero del rapporto padre-figlio, rapporto necessario per la crescita equilibrata del minore. Ed anzi, la madre aveva contribuito ad alimentare l’atteggiamento oppositivo del figlio nei confronti del padre , continuando a manifestare la sua disapprovazione ed a denigrare l’ex marito.

 

Le sanzioni irrogate: ammonimento e risarcimento dei danni

La donna è stata ammonita ed invitata a rispettare il ruolo genitoriale dell’ex coniuge e ad astenersi da condotte negative e denigratorie.
Non solo: è stata condannata a risarcire al padre del minore i danni, liquidati dal giudice in 30.000,00 euro, importo determinato in via equitativa, tenuto conto delle buone condizioni economiche del danneggiato e della durata nel tempo dell’inadempimento.
Una sanzione pesante, il cui scopo non è soltanto sanzionatorio, m è soprattutto di dissuadere in concreto il ripetersi in futuro delle condotte pregiudizievoli per il figlio.
E sempre con finalità dissuasiva, nel provvedimento in esame si paventa l’applicazione per la madre di sanzioni più gravi, inclusa la revisione delle condizioni dell’affidamento, in caso di reiterazione delle condotte censurate.

 

L’art. 709 ter c.p.c. : misure per il corretto esercizio della responsabilità genitoriale

Introdotto dalla legge sull’affidamento condiviso (legge 54/2006), l’art. 709 ter c.p.c. disciplina la soluzione dei conflitti tra i genitori non più conviventi in ordine alla gestione dei figli, all’esercizio della responsabilità genitoriale ed alle modalità di affidamento.

La norma è nata con lo scopo di favorire l’applicazione in concreto dei provvedimenti giudiziari che regolano i rapporti tra i genitori separati ed i figli, evitando abusi e condotte che possono nuocere alla crescita equilibrata e serena dei figli.

L’art. 709 ter c.p.c. trova applicazione quando vi siano già tra le parti provvedimenti che regolano l’affidamento dei figli e i rapporti con i genitori. Può trattarsi, ad esempio, dell’ordinanza presidenziale della separazione o del divorzio, del decreto di omologa della separazione consensuale, della sentenza di divorzio o del decreto che regola l’esercizio della responsabilità genitoriale sui figli nati da persone non sposate, o ancora degli accordi di separazione, divorzio o modifica delle condizioni di separazione e divorzio raggiunti dai coniugi a seguito di negoziazione assistita.

Per risolvere il contrasto tra i genitori – stabilisce la norma -il giudice adotta i provvedimenti opportuni, ovvero le misure che ritiene più adeguate e tutelanti per i figli minori.

Inoltre, in caso di violazioni gravi delle regole sull’affidamento e sulla responsabilità genitoriale, ed altresì quando il comportamento di uno dei genitori contrasti con l’interesse del figlio o ostacoli il corretto svolgimento dell’affidamento, il giudice può intervenire in modo più deciso, modificando i provvedimenti vigenti e adottando una serie di sanzioni ai danni del genitore che abbia tenuto le condotte violative o pregiudizievoli.

Più specificamente, le misure sanzionatorie stabilite dall’art. 709 ter c.p.c. sono le seguenti:
1) l’ammonimento, cioè l’invito formale a rispettare le regole vigenti;
2) il risarcimento dei danni subiti dal minore stesso a causa delle condotte genitoriali non corrette;
3) il risarcimento dei danni in favore dell’altro genitore;
4) il pagamento di una sanzione pecuniaria da un minimo di 75,00 euro ad un massimo di 5.000,00 euro in favore della Cassa delle ammende.

Oltre alla velenza punitiva, le misure hanno al contempo efficacia dissuasiva, servono ad evitare il ripetersi nel tempo delle condotte.

Sono finalizzate ad indurre i genitori separati a dare effettiva attuazione alla bigenitorialità, ad evitare di coinvolgere i figli nel conflitto tra gli adulti, strumentalizzandoli e trasformandoli in oggetto di contesa e rivalsa nei confronti dell’ex.

 

Fonte: Tribunale di Roma, sentenza n. 18799/2016 dell ‘11.10.2016

Quando l’ex non paga l’assegno: cosa fare?

In caso di mancato pagamento del contributo mensile per il mantenimento del coniuge o dei figli, così come in caso di mancato pagamento dell’assegno di divorzio, diversi sono gli strumenti attivabili.

 

Come si recuperano gli arretrati?

Per recuperare delle mensilità non versate è possibile agire mediante l’esecuzione forzata, con la notifica dell’atto di precetto ed il successivo pignoramento dello stipendio o del conto corrente bancario o di altri beni (anche immobili) di proprietà di colui che è tenuto al versamento.

L’azione esecutiva può essere avviata quando la misura dell’assegno è stabilita in un provvedimento del giudice (ordinanza presidenziale nella separazione o nel divorzio, sentenza di separazione o divorzio, decreto relativo al mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio, decreto di modifica delle condizioni di separazione o divorzio) o in un accordo di separazione, divorzio o modifica delle condizioni di separazione e divorzio esito di negoziazione assistita.

In mancanza di un provvedimento del giudice o dell’accordo negoziato (che costituiscono “titolo esecutivo”) non è consentito intraprendere l’esecuzione forzata.

 

E gli assegni futuri?

La legge consente, quando vi sia una condizione di inadempimento protratta nel tempo, di ottenere il versamento diretto del contributo mensile dal datore di lavoro dell’ex.

La procedura è regolata dall’art. 156 c.c. attivabile sia per l’assegno stabilito nella separazione, nel divorzio o nelle modifiche della separazione e del divorzio, sia per l’assegno relativo al mantenimento dei figli nati da persone non sposate previsto da un provvedimento giudiziale.

La domanda di versamento diretto va fatta al giudice, il quale, sentite le parti interessate, disporrà con provvedimento che il mensile venga erogato direttamente dal datore di lavoro (o dall’INPS o da altri enti previdenziali nel caso in cui l’ex sia pensionato).

 

Nel divorzio è più facile ottenere il versamento diretto

Nel caso in cui l’assegno sia stabilito in sede di divorzio si può ottenere il pagamento diretto dal datore di lavoro (o dagli enti pensionistici) in modo ancora più semplice e veloce, poichè non è necessario il passaggio in tribunale.

L’art. 8 della legge sul divorzio (legge n. 898/70) stabilisce, infatti, che per ottenere il versamento dell’assegno direttamente dal datore di lavoro e, più in generale, da tutti coloro che sono “tenuti a corrispondere periodicamente somme di denaro al coniuge obbligato” (in senso lato, anche i conduttori di immobili di proprietà dell’ex) sia sufficiente la notifica al terzo tenuto alla prestazione periodica del provvedimento giudiziale, unitamente all’invito a corrispondere le somme dovute.

La notifica al terzo dev’essere preceduta da una comunicazione di messa in mora inviata all’ex coniuge – debitore, mediante raccomandata con avviso di ricevimento. Decorsi trenta giorni senza che il debitore abbia provveduto al pagamento, si può procedere con la notifica diretta al terzo.

A maggior tutela della parte economicamente più debole, la legge sul divorzio prevede che il coniuge che deve percepire l’assegno abbia “azione diretta ed esecutiva” nei confronti del datore di lavoro dell’ex, o dell’ente pensionistico: il che significa che se il terzo non adempie, il coniuge potrà procedere con l’esecuzione forzata direttamente nei suoi confronti.

 

Si può prevenire il mancato versamento degli alimenti?

In via preventiva, di fronte al rischio che il coniuge non versi gli alimenti, si può chiedere al tribunale il sequestro dei beni ai sensi dell’art. 156 c.c. e dell’art. 8 della legge sul divorzio. Si tratta di un sequestro conservativo, finalizzato cioè ad evitare che l’ex coniuge o l’ex compagni si “liberino” dei beni di loro proprietà, cedendoli a terzi.

E’ inoltre possibile iscrivere ipoteca sugli immobili di proprietà dell’ex. Per procedere in questo senso è necessario avere già a disposizione un provvedimento che stabilisca l’ammontare dell’assegno (ordinanza presidenziale nella separazione o nel divorzio, sentenza di separazione o divorzio, decreto relativo al mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio, decreto di modifica delle condizioni di separazione o divorzio) o un accordo privato di separazione, divorzio o modifica delle condizioni di separazione e divorzio ottenuto mediante negoziazione assistita.

 

Di fronte al mancato pagamento dell’assegno si può fare denuncia penale?

Certamente è possibile agire anche in sede penale. Contribuire al mantenimento della moglie, anche divorziata, e dei figli è un obbligo che, se violato, espone al rischio di sanzioni penali ai sensi degli art. 570 (violazione degli obblighi di assistenza familiare) e 388 (violazione dolosa di provvedimento dell’autorità giudiziaria) del codice penale.

 

Casa coniugale in comodato: in caso di separazione, va assegnata?

In tempo di crisi economica, accade sempre più spesso che i giovani sposi vadano ad abitare in un immobile di proprietà dei genitori o dei parenti di uno dei due, concesso in comodato senza termine di durata. A quel punto, l’immobile diventa sede della vita familiare e, se i coniugi si separano, per il proprietario della casa può essere difficile rientrare in possesso del bene, specie se dall’unione sono nati figli.

Al riguardo, la Cassazione in diverse pronunce – e da ultimo nella sentenza n. 24618/15 – ha chiarito che quando la casa familiare é costituita da immobile concesso in comodato senza limiti di durata a favore del nucleo familiare, in caso di separazione personale dei coniugi, l’interesse dei figli a conservare l’ambiente domestico e di vita prevale sull’interesse del proprietario dell’immobile (comodante) a rientrare nella disponibilità del bene. L’abitazione, pertanto, va assegnata al genitore convivente con i figli, indipendentemente da chi ne sia proprietario.

Il diritto di proprietà va, dunque, sacrificato a vantaggio del diritto dei figli a mantenere, anche dopo la separazione dei genitori, il consueto ambiente di vita. Del resto, secondo la normativa in materia di contratto di comodato (art. 1803 e segg. Codice civile), se un bene è stato dato in comodato e le parti non hanno fissato un termine finale per la restituzione del bene, la scadenza del contratto si desume dall’uso per il quale il bene è stato concesso in comodato: ne consegue che, quando una casa è stata data in comodato, ad esempio, al figlio, perchè vi viva con la famiglia, la famiglia potrà continuare a risiedervi anche se il figlio e la moglie si separano.

Particolarmente interessante sul tema è una recente decisione del Tribunale di Aosta, con cui è stato chiarito che la destinazione dell’immobile ad abitazione familiare va puntualmente dimostrata.

Il provvedimento, pronunciato in sede presidenziale nell’ambito di un giudizio di separazione, riguardava una coppia con un figlio minorenne, affidato in via condivisa e collocato presso la madre. Nonostante la previsione della collocazione abitativa con la madre, il giudice non ha accolto la domanda della medesima di assegnazione della residenza familiare (immobile di proprietà dei genitori del marito e concesso in comodato da questi, che poi ne avevano chiesto la restituzione) dichiarando il non luogo a provvedere sul punto.

Secondo il tribunale, in caso di comodato senza termine finale, la volontà di assoggettare il bene a vincoli d’uso particolarmente gravosi, quali la destinazione a residenza familiare, non può essere presunta, ma va di volta in volta accertata; ne consegue che,in mancanza di prova, dev’essere adottata la soluzione più favorevole per il comodante. L’immobile, pertanto, non può essere assegnato e va restituito al proprietario.

Fonte: Trib. Aosta ord. 13.1.2016 (est. Colazingari)

I contratti di convivenza: cosa sono e come funzionano

Tra le novità introdotte dalla legge 76/2016 sulle unioni civili e le convivenze di fatto (legge Cirinnà), che entrerà in vigore il prossimo 5 giugno, vi è la disciplina normativa di contratti di convivenza, vale a dire dei contratti con i quali i conviventi di fatto possono regolare gli aspetti economici della convivenza.

Già prima della riforma, i contratti di convivenza erano ammessi nell’ordinamento, come contratti atipici, la cui validità era riconosciuta dall’interpretazione giurisprudenziale e dalla dottrina più avanzata. Si trattava, tuttavia, di uno strumento assai poco conosciuto ed utilizzato.

Con la nuova legge, i contratti di convivenza hanno una specifica disciplina normativa: sono infatti previsti i requisiti di forma e sostanza necessari per la validità dell’accordo. Ne esaminiamo di seguito i profili essenziali.

1. Chi può stipulare i contratti di convivenza?
I contratti di convivenza possono essere stipulati dai “conviventi di fatto“, ovvero da
due persone etero o omosessuali unite stabilmente da legami di coppia affettivi e di reciproca assistenza morale e materiale,
non legate da parentele, affinità, adozione, matrimonio o unione civile,
– che risiedano nello stesso immobile e
– che abbiano registrato la convivenza nell’anagrafe del comune di residenza. 

2. E’ necessaria la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata
Per la validità del contratto di convivenza è necessaria la forma scritta: i contratti di convivenza vanno redatti con atto pubblico o scrittura privata autenticata da un notaio o da un avvocato.
Per poter essere efficace nei confronti dei terzi, il contratto dev’essere iscritto nei registri anagrafici nei quali è registrata la convivenza. La legge, pertanto, stabilisce che il contratto debba essere trasmesso entro 10 giorni dalla sua sottoscrizione al comune di residenza dei conviventi, a cura del professionista (notaio o avvocato) che ha autenticato il contratto.

3. Il contenuto del contratto di convivenza
Il contratto di convivenza ha ad oggetto i rapporti patrimoniali relativi alla vita comune. Non possono essere oggetto di pattuizione contrattuale i rapporti personali tra i conviventi ed i rapporti con i figli.
Il contratto di convivenza può contenere
– l’indicazione della residenza comune,
– le modalità di contribuzione alle necessità della vita comune, in relazione alla capacità economica e lavorativa dei partner,
– la scelta del regime patrimoniale della comunione dei beni prevista per il matrimonio o di altro regime patrimoniale.

Non è espressamente prevista, ma non neppure è esclusa, la possibilità per i conviventi di regolamentare le conseguenze della cessazione dell’unione, in passato riconosciuta valida dalla giurisprudenza.

4. Il contratto di convivenza può essere modificato?
Il contratto di convivenza può essere modificato in qualsiasi momento, sempre mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata.

5. Come si scioglie il vincolo contrattuale?
Il contratto di convivenza si scioglie:
consensualmente, mediante la sottoscrizione da parte di entrambi i conviventi di un atto scritto, autenticato dal notaio o dall’avvocato con cui invalidano il precedente accordo;
per recesso di una sola delle parti: ciascuna parte può rivolgersi ad un notaio o ad un avvocato dichiarando di volersi liberare dai vincoli pattizi. In questo caso, è prevista una tutela per il convivente che abiti nella casa familiare di proprietà dell’altro: più esattamente, la legge 76/2016 stabilisce che la dichiarazione di recesso dovrà contenere il termine non inferiore a 90 giorni per il rilascio dell’abitazione da parte del convivente;
– nel caso in cui uno dei partner contragga matrimonio o unione civile;
– per morte di una delle parti.

6. E’ obbligatorio stipulare i contratti di convivenza?
Regolamentare i rapporti mediante il contratto di convivenza rappresenta una facoltà, un’opportunità per i conviventi, i quali ben possono non stipulare alcun contratto. In questo caso, si applicano le norme sulla convivenza introdotte dalla Legge 76/2016 e, per quanto attiene gli acquisti comune, le norme generali sulla proprietà e sulla comunione dei beni.

Le convivenze di fatto in 10 punti

La  legge n. 76/2016 del 20.5.2016 (legge Cirinnà), che entrerà in vigore il 5 giugno 2016, regola due diversi istituti: le unioni civili tra persone dello stesso sesso e le convivenze di fatto tra persone etero o omosessuali.
L’attenzione dei media e dei commentatori si è focalizzata finora sulle unioni civili, ma ad un’attenta lettura della nuova legge non può sfuggire come in realtà la disciplina più rivoluzionaria sia quella delle coppie di fatto. Ne esaminiamo di seguito i profili essenziali.

1. Cos’è la convivenza di fatto?

Sono considerati “conviventi di fatto” due persone unite stabilmente da legami di coppia affettivi e di reciproca assistenza morale e materiale, non legate da parentele, affinità, adozione, matrimonio o unione civile.
Per assumere rilievo giuridico, la convivenza non richiede una dichiarazione formale innanzi all’ufficiale di stato civile. Per l’accertamento della convivenza, secondo la legge, si fa riferimento alla certificazione dello stato di famiglia anagrafico. Non è escluso, tuttavia, che la prova del rapporto di convivenza possa essere fornita anche in altri modi.

2. Rapporti patrimoniali e personali tra i conviventi

Con la recente riforma sono stati estesi ai conviventi una serie di diritti e doveri reciproci tipici del matrimonio, più esattamente i conviventi sono tenuti a rispettare
– l’obbligo di coabitazione,
– l’obbligo di reciproca assistenza morale ed economica,
– il dovere di contribuire alle esigenze della famiglia.

Il rapporto di convivenza determina inoltre il sorgere di alcuni diritti reciproci in capo ai conviventi:
– il diritto al risarcimento del danno in caso di decesso del partner o di lesioni ai danni del medesimo ( in questo caso la legge ha trasferito in precetto l’elaborazione giurisprudenziale in materia di responsabilità civile),
– i diritti spettanti al coniuge in materia di assistenza penitenziaria ,
– il diritto al subentro nel rapporto di locazione;
– il diritto di visita e di accesso alle informazioni sanitarie personali, in caso di malattia o di ricovero del convivente.

E’ infine previsto, in caso di cessazione della convivenza, il diritto agli alimenti in favore l’ex convivente che versi in stato di bisogno.

3. Rapporti con i figli

Le differenze di trattamento della convivenza rispetto al matrimonio e all’unione civile attengono il rapporto tra i conviventi, non il rapporto coi figli: grazie alla legge 219/2012, infatti, la posizione giuridica dei figli nati nel matrimonio e fuori da esso è del tutto equivalente.

4. Designazione preventiva del convivente in caso di malattia incapacitante o di morte

La legge 76/2016 è particolarmente innovativa sotto questo profilo: il convivente potrà designare l’altro convivente come suo rappresentante, con poteri pieni o limitati, per le decisioni sanitarie in caso di malattia che comporti incapacità di intendere e di volere.
Allo stesso modo, potrà designarlo come rappresentante in caso di morte, per le decisioni che riguardino la donazione degli organi, il trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie.
Per la designazione è sufficiente una dichiarazione scritta autografa, senza necessità di autentica da parte di pubblico ufficiale. In caso di impossibilità di redigerla, è necessaria la presenza di un testimone.
Nulla di simile è previsto nell’ordinamento per il matrimonio nè per l’unione civile.

5. Amministrazione di sostegno, interdizione e curatela del convivente

A mente della legge 76/2016, il convivente potrà essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno del partner  e ha diritto ad essere informato su eventuali procedimenti relativi alla limitazione della capacità giuridica del compagno.

6. Interruzione della convivenza

La legge 76/2016 non regola le modalità di interruzione della convivenza di fatto.
L’unica norma che riguarda espressamente la cessazione della convivenza è il comma 65 dell’art. 1 relativo al diritto agli alimenti per l’ex convivente.

7. Diritto agli alimenti in favore dell’ex convivente

La legge 76/2016 stabilisce che, in caso di cessazione della convivenza di fatto, l’ex convivente ha diritto di ricevere dall’altro gli alimenti.§
Al riguardo, è bene sottolineare che la prestazione alimentare non va confusa con il contributo al mantenimento: l’obbligo di mantenimento dopo la cessazione della convivenza, originariamente presente nel disegno di legge, é stato espunto dalla versione finale approvata dal Parlamento.
Gli alimenti sono dovuti soltanto se l’ex convivente versa in stato di bisogno e non dispone dei mezzi per sopravvivere: una situazione di difficoltà economica estrema, ben diversa dal mantenimento che é finalizzato a consentire la conservazione del tenore di vita goduto durante il rapporto di convivenza.
L’obbligazione alimentare va disposta dal giudice, su richiesta dell’avente diritto.
In forza della legge 76/2016, il convivente é stato inserito tra gli obbligati alla corresponsione della prestazione alimentare, dopo il coniuge, gli ascendenti ed i discendenti e prima dei fratelli e delle sorelle.

8. I contratti di convivenza

La legge 76/2016 disciplina i contratti di convivenza, ovvero gli accordi con i quali le parti possono regolare gli aspetti economici della loro convivenza, già in precedenza ammessi nell’ordinamento per interpretazione giurisprudenziale.
Sono specificamente disciplinati i requisiti di forma, validità e sostanza della pattuizioni economiche tra i conviventi.

9. Impresa familiare tra conviventi

In materia di impresa familiare, la legge 76/2016 ha introdotto il nuovo articolo 230 ter nel Codice Civile che garantisce al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente una partecipazione agli utili dell’impresa, ai beni acquistati ed agli incrementi.
La partecipazione è proporzionale al lavoro prestato e non spetta quando il rapporto di collaborazione sia ufficializzato in forma societaria o di rapporto di lavoro subordinato.

10. Tutela del convivente in ambito successorio

La legge 76/2016 non prevede diritti successori particolari per il convivente, ma solo un diritto di abitazione: in caso di morte del proprietario della residenza comune, il partner potrà continuare ad abitare la casa per un determinato periodo di tempo, ed in particolare:
– per due anni, in caso di convivenze di durata inferiore al bienno;
– per un periodo corrispondente alla durata della convivenza fino ad un massimo di cinque anni, nel caso in cui la convivenza sia durata più di due anni;
– per un periodo non inferiore a tre anni, indipendentemente dalla durata della convivenza, se coabitino con figli minorenni o disabili nati dall’unione. Inspiegabilmente, non è prevista dalla legge alcuna tutela quando vi siano figli maggiorenni non economicamente autosufficienti.
Il diritto di abitazione viene  meno quando il convivente cessi volontariamente di abitare nella casa comune e in caso di matrimonio, unione civile o nuova convivenza di fatto.

Fonte: Legge 20.5.2016 n. 76.

Stepchild adoption: la parola ai giudici

Le norme sull’adozione del figlio del partner (stepchild adoption) nelle coppie dello stesso sesso, originariamente presenti nel DDL Cirinná, sono state stralciate dalla stesura finale del progetto di legge approvata dalla Camera di deputati l”11 maggio scorso. Nella legge sulle unioni civili  di prossima entrata in vigore é così rimasta una lacuna normativa che la giurisprudenza si trova a dover colmare, alla luce delle emergenze sociali che premono per il riconoscimento di nuove forme di genitorialità.
Risale a qualche settimana fa la pubblicazione di una nuova sentenza con cui il Tribunale per i minorenni di Roma ha riconosciuto l’applicabilità dell’istituto dell’adozione in casi particolari (ex art. 44, lettera d), legge 184/1983) del figlio nell’ambito di una coppia omosessuale.
La sentenza è passata alla cronaca per essere la prima pronuncia riguardante una coppia di uomini e il figlio nato all’estero da fecondazione eterologa. E’ anche il primo caso in cui la Procura, che pure aveva espresso parere contrario, non ha impugnato la decisione, consentendone così il passaggio in giudicato.

Il caso deciso dal Tribunale dei minori

La vicenda riguardava, più specificamente, una coppia omosessuale aveva contratto matrimonio in Canada ed in Canada era nato il figlio, con maternità surrogata a seguito di fecondazione in vitro, come consentito dalla legge canadese; dalla nascita – cui entrambi i coniugi avevano assistito – il neonato era divenuto a tutti gli effetti loro figlio, secondo la legge canadese, e con loro era rimasto dapprima in Canada, poi in Italia, dove veniva cresciuto dalla coppia omogenitoriale con il supporto delle rispettive famiglie d’origine.
In Italia, il coniuge del genitore biologico ha chiesto di poter adottare il figlio del partner nelle forme dell’adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 44, lettera d) della legge 184/1983.

L’adozione in casi particolari
Al riguardo, va precisato che l’adozione in casi particolari è disciplinata dall’art. 44 della legge n. 184/83 che, elenca quattro ipotesi tassative a salvaguardia, nelle lettere a) e b), del rapporto che si costituisce tra il minore ed un nucleo familiare con cui in precedenza ha già sviluppato legami affettivi, mentre nelle lettere c) e d), i minori che versano in specifiche situazioni di disagio.
La specificità dell’adozione in casi particolari è data dal fatto che, a differenza dell’adozione ordinaria o “piena”, i legami del minore con la famiglia di origine permangono e che in tale tipo di adozione gli adottandi non acquistano alcun diritto su eventuali beni del minore adottato. Il minore, invece, è equiparato ai figli legittimi e concorre come ogni altro figlio nella divisione ereditaria dei beni degli adottanti.
Inoltre, a differenza dell’adozione ordinaria, l’adozione in casi particolari può, nei casi previsti dalla legge, essere revocata.
Presupposto fondamentale è che i genitori dell’adottando prestino il proprio assenso, qualora siano in grado di poterlo fornire.

La decisione del T.M.
Sulla scia delle precedenti pronunce (sentenze n. 1055 del 30.7.2014 e 291 del 22.10.2015), il Tribunale ha ritenuto che l’adozione in casi particolari vada disposta, a tutela del prioritario interesse del minore: con l’adozione in casi particolari il legislatore ha voluto ampliare il novero dei soggetti legittimati a diventare genitori, semplificando la procedura di adozione allo scopo di consolidare i rapporti tra il minore e le persone che già si prendono cura di lui, prevedendo un’adozione con effetti più limitati e presupposti meno rigorosi rispetto a quella legittimante.
Non è dunque necessario che il minore si trovi in stato di abbandono (come richiesto per l’adozione ordinaria), presupposto per l’adozione in casi particolari è – nella vicenda esaminata dal Tribunale – l’accertata impossibilità di procedere all’affidamento preadottivo (lett. d) art. 44).
Nessun rilievo assume al riguardo la circostanza che il richiedente l’adozione non sia coniugato per il nostro ordinamento con il padre biologico del bambino di cui chiede l’adozione: la lettera d) dell’art. 44 non prevede il vincolo coniugale come presupposto, e nel nostro ordinamento non c’è un esplicito divieto alla persona single di adottare, indipendentemente dal suo orientamento sessuale.
Osserva il collegio come diversi giudici abbiano ritenuto di applicare l’adozione in casi particolari anche ai conviventi di fatto (Trib. minorenni Milano 626/2007; C. app. Firenze 1274/2012), ed operare una distinzione tra conviventi eterosessuali ed omosessuali sia contrario ai principi costituzionali, oltre che ai principi della Convenzione Europea sui diritti dell’Uomo, art. 8 e 14, più volte ribaditi dalle pronunce della Corte Europea dei Diritti Umani.
Dunque, nel caso di impossibilità di affidamento preadottivo, non va indagata la sussistenza dello stato di abbandono del minore, ma la decisione del Tribunale dei minori dev’essere fondata sul “riscontro dell’idoneità dell’adottante, valutabile discrezionalmente dal giudice sulla base dell’esclusivo interesse del minore“: non si tratta di rispondere all’esigenza di riconoscimento di una bigenitorialità non ancora consentita dalla legge, ma il Giudice è chiamato valutare il legame esistente tra il minore e l’adottando considerato autonomamente, e non con riferimento alla relazione con il genitore biologico del minore, “escludendo alcuna sovrapposizione del rapporto che lega le due figure adulte con quello di tipo filiale del ricorrente con il minore, riconoscendo ad esso un contenuto di diritti/doveridi fatto già sussistenti ed attuati“.
E nel caso in esame, dopo aver svolto approfondite indagini mediante i Servizi sociali sul nucleo familiare, sulla relazione di coppia e sulla relazione coppia-bambino, il Tribunale ha ritenuto rispondente all’interesse del minore essere adottato dal ricorrente.
Fonte: Tribunale minorenni Roma, sentenza 23.12.2015

Se i genitori non sono d’accordo sulla scelta della scuola

In un procedimento di separazione personale, i coniugi non riescono a decidere assieme se iscrivere i figli alla scuola pubblica o ad una scuola privata: un genitore sostiene che i bambini dovrebbero continuare a frequentare l’istituto paritario cui erano già iscritti prima della separazione, l’altro si oppone, rappresentando di non essere più in condizione di far fronte alle elevate spese della scuola privata. La decisione viene rimessa al  giudice della separazione, che opta per la scuola pubblica.

Il ragionamento seguito dal Tribunale di Milano, nella recente sentenza n. 3521 del 18.3.2016, prende le mosse dalla constatazione che la separazione determina un impoverimento dei membri della famiglia, al momento che si passa da un’unica economia a due economie domestiche distinte, con conseguente incremento delle spese, molte delle quali (casa, acquisto di alimenti, ecc.) necessariamente si sdoppiano a  causa della separazione.

Di tale dato il giudice deve tenere conto, trattandosi di un elemento di fatto che incide, in concreto, sul tenore di vita dei componenti della famiglia, tenore di vita che, per ragioni oggettive, non può essere dopo la separazione equivalente a quello che aveva il nucleo prima della frattura. E, dunque, quand’anche in precedenza i figli avessero frequentato scuole private di pregio e di ottimo livello, questa possibilità può anche venire meno quando i genitori si separano e non sono più dello stesso parere sulla scelta iniziale.

In questo caso – sancisce il Tribunale di Milano – la preferenza va data alla scuola pubblica, quando non vi siano controindicazioni per i minori: e ciò poichè la scuola pubblica è ritenuta idonea dall’ordinamento allo sviluppo culturale di qualsiasi minore residente sul territorio ed inoltre rappresenta una scelta “neutra“, che non rischia di orientare il minore verso determinate scelte educative o di orientamento culturale cui potrebbe essere indirizzato dalla scuola privata.

L’opzione in favore dell’istruzione pubblica è, dunque, da privilegiare, a meno che non vi siano delle situazioni particolari (specialmente se riconducibili a difficoltà di apprendimento, fragilità di inserimento con i coetanei, esigenze di coltivare gli studi e la formazione in sintonia con la dotazione culturale o l’estrazione nazionale dei genitori, ecc.), che rendano oggettiva l’esigenza del minore di frequentare la scuola privata.

Fonte: Tribunale di Milano, sentenza n. 3521 del 18.3.2016 (est. Buffone)