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Diritto di visita e pernottamento: il diritto dei figli di respirare l’atmosfera paterna

Una volta veniva chiamato “diritto di visita“, cioè il diritto del genitore separato o divorziato non convivente con i figli (generalmente, il padre) di trascorrere del tempo con i figli minori.
Diritto che é anche un dovere, non mancavano mai di sottolineare i difensori del genitore convivente con il figlio (la madre, nella maggior parte dei casi), evidenziando così che la richiesta di trascorrere tempi con i figli doveva poi essere attuata nei fatti, che non bastava chiedere, ma occorreva poi rispettare il calendario preteso.

Da dieci anni, la terminologia “diritto di visita” non è più presente nel Codice Civile: la legge 54/2006 con cui è stato introdotto l’affidamento condiviso, ha abbandonato la precedente dicitura ed ha posto al centro il figlio, anziché il genitore, affermando il diritto del figlio a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascun genitore e di ricevere cura, educazione, istruzione ed assistenza morale da entrambi.

Il vecchio “diritto di visita” è stato dunque sostituito dalla previsione delle “modalità e dei tempi di permanenza” del figlio presso ciascuno dei genitori (art. 155, ora art. 337 ter c.c.): non si tratta di un mero cambiamento lessicale, ma di un vero e proprio cambiamento di prospettiva, non é più il genitore che ha il diritto di incontrare i figli, ma é il figlio che ha il diritto di trascorrere il suo tempo con entrambi i genitori.

 

Quali sono i tempi “giusti”?

Sui tempi delle visite ai figli non ci sono regole specifiche, ogni situazione va valutata nella sua singolarità, tendendo conto degli impegni delle persone coinvolte (figli e genitori), della distanza tra le abitazioni, della situazione logistica e delle abitudini e dell’assetto preesistente alla separazione.

In calendario standard utilizzato dai tribunali prevede che il figlio stia con genitore non convivente il fine settimana (generalmente dal venerdì alla domenica sera) a settimane alterne e uno o due pomeriggi alla settimana, con o senza pernottamento. Vengono inoltre previsti periodi di tempo più lunghi durante le festività tradizionali (Natale, Capodanno, Pasqua, ecc.) ed i mesi estivi.

Ma queste sono regole generali, modulabili ed adattabili alle situazioni concrete.
La soluzione migliore è quella di cercare un accordo tra i genitori per definire consensualmente il calendario della frequentazione padre-figli. Nessuno più dei diretti interessati conosce la soluzione meglio rispondente alle esigenze della sua famiglia separata.

Se entrambi i genitori sono d’accordo, può essere prevista anche la permanenza dei figli presso ciascuno dei genitori al 50%, per tempi paritari. Si parla, in questo caso, di affidamento alternato.

Da evitare, in ogni caso, l’eccessivo frazionamento dei tempi: un giorno con uno e un giorno con l’altro genitore non va bene, perché eccessivamente destabilizzante per il bambino. Il minore, infatti, deve conservare, per quanto possibile, una continuità di abitudini ed avere certezze e punti di riferimento.

Un calendario di massima va sempre previsto: stabilire regole precise sui giorni e gli orari che il figlio trascorre con ciascuno dei genitori è utile per consentire al bambino ed ai genitori una buona organizzazione del quotidiano e consente di evitare possibili conflitti.

 

Il pernottamento

La questione del pernottamento rappresenta spesso un nodo critico, specie quando si tratta di bambini molto piccoli.
Se c’è l’accordo dei genitori, nessun problema al pernottamento presso il padre anche per figli in tenera età. In mancanza di accordo, i Tribunali tendono a negarlo quando si tratta di bambini di età inferiore a tre-quattro anni, poiché ritenuti ancora in “età materna”.

Il pernottamento ha una importante valenza psico-affettiva: cenare con il padre, parlare, guardare assieme la TV, prepararsi per andare a letto e, la mattina dopo, condividere l’inizio della giornata, la sveglia, la colazione, rappresentano momenti particolarmente significativi per la crescita del figlio, in quanto gli consentono di continuare a condividere con il genitore che è uscito di casa le stesse abitudini che erano presenti prima della separazione.

 

Tener conto delle esigenze dei figli

Sui tempi della frequentazione non ci sono, dunque, regole fisse, ma é importante tenere sempre a mente che il calendario va stabilito tenendo prima di tutto conto delle esigenze del figlio, e del suo diritto a mantenere un rapporto continuativo con entrambi i genitori, anche dopo la loro separazione.

Il dott. Giovanni Bollea, noto neuropsichiatra infantile, strenuo sostenitore dell’importanza della condivisione della responsabilità genitoriale nella separazione, già in epoca precedente alla legge 54/2006 sull’affidamento condiviso, sottolineava che il peggior trauma che può derivare al figlio dalla separazione dei genitori è quello di sentirsi abbandonato da uno dei genitori, di perdere uno degli oggetti d’amore.

E’ fondamentale fare in modo che il figlio non si senta abbandonato dal genitore che, per effetto della separazione, va via di casa. I tempi di permanenza, dunque, andranno calibrati consentendo ai figli di conservare con il genitore che va via, di norma il padre, ampi momenti di condivisione, in modo che il padre possa esercitare a tutti gli effetti la sua funzione genitoriale, anche a livello psico-pedagogico, e che il figlio possa “respirare l’atmosfera paterna“.

“Dopo di noi”: i punti essenziali della nuova legge

E’ entrata in vigore lo scorso 25 giugno la legge 22.6.2016 n. 112 a tutela dei diritti delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare, più conosciuta come Legge sul Dopo di Noi.

L’obiettivo della legge 112/2016 è assicurare adeguata protezione alle persone con disabilità grave che non possono contare sull’aiuto della famiglia, in quanto prive di entrambi i genitori o perché i genitori non sono in grado di farsi carico della loro assistenza.

Le misure previste dal nuovo provvedimento sono finalizzate ad evitare l’istituzionalizzazione e a favorire l’integrazione e la progressiva presa in carico della persona in difficoltà fin da quando i genitori sono ancora in vita, in vista del futuro venir meno del loro supporto.

Chi sono i beneficiari della legge?

Destinatari delle tutele previste dalla legge sono le persone con disabilità grave, non dovuta all’invecchiamento o a patologie senili, che non dispongano di sostegno familiare o in vista del venir meno del sostegno familiare.
Lo stato di disabilità grave viene definito dalla legge con riferimento alla legge n. 104 del 1992 (artt. 3 e 4).

 

Istituito il Fondo per l’assistenza delle persone disabili

Per realizzare gli scopi di cui sopra la legge ha istituito un apposito Fondo, con una dotazione di 90 milioni di euro per l’anno 2016, 38,3 milioni per il 2017 e 56,1 milioni per il 2018.
Le risorse del Fondo saranno destinate, più esattamente, ai seguenti scopi:
– attivare programmi di deistituzionalizzazione e di supporto alla domiciliarità, in abitazioni o gruppi-appartamento che riproducano le condizioni abitative e di relazione della casa familiare, anche mediante l’utilizzo delle nuove tecnologie
– realizzare interventi per la permanenza temporanea in una soluzione abitativa extrafamiliare per fronteggiare situazioni di emergenza, interventi da adottarsi solo nei casi di necessità, e comunque in via del tutto residuale e nel rispetto della volontà della persona disabile e dei genitori e di chi ne tutela gli interessi;
– porre in essere interventi innovativi di residenzialità, quali soluzioni abitative di tipo familiare e di co-housing;
– sviluppare programmi di accrescimento della consapevolezza, di abilitazione e di sviluppo delle competenze con l’obiettivo di favorire il più possibile l’autonomia delle persone disabili.

I requisiti di accesso alle misure di assistenza saranno individuati con decreto del ministero del lavoro e delle politiche sociali, da emanare entro sei mesi.

 

Previste agevolazioni fiscali

La legge introduce una serie di agevolazioni fiscali per le iniziative di tutela delle persone disabili assunte dai familiari, e più esattamente

1- detrazioni fiscali per le assicurazioni rischio morte :
è stata aumentata, a decorrere dal periodo d’imposta 2016, a 750 € la detraibilitá dei premi per assicurazioni sulla vita finalizzate alla tutela delle persone con disabilità grave;

2 – esenzioni da imposte per i trust, i vincoli di destinazione ed i fondi speciali:
è stata introdotta l’esenzione dalle imposte sulla successione e sulla donazione, nonchè dall’imposto di bollo dei beni ed i diritti conferiti in un trust o gravati da vincolo di destinazione (art. 2645 ter c.c.) oppure destinati ai fondi speciali appositamente previsti dall’art. 1 della legge stessa,in favore di persone con disabilità grave.
Le agevolazioni di cui sopra si applicheranno dal 1° gennaio 2017.

Agli atti dispositivi di cui sopra le imposte di registro, ipotecaria e catastale si applicano in misura fissa.

Per fruire del regime agevolato, è necessario rispettare i seguenti requisiti:
1. il trust, il vincolo di destinazione o il fondo speciale dovranno perseguire come finalità esclusiva l’inclusione sociale, la cura e l’assistenza delle persone disabili gravi, in favore delle quali sono istituiti; la finalità dovrà essere espressamente indicata nell’atto istitutivo;
2. il trust, il vincolo di destinazione o il fondo speciale dovranno essere fatti per atto pubblico;
3. nell’atto istitutivo dovranno essere specificamente indicati i soggetti coinvolti ed i loro ruoli, dovranno essere descritte le funzionalità ed i bisogni specifici delle persone disabili in favore dei quali sono istituiti, con indicazione anche delle attività assistenziali necessarie a garantire la cura e la soddisfazione dei bisogni del beneficiario;
4. dovranno, inoltre, essere individuati nel dettaglio gli obblighi del trustee, del fiduciario e del gestore, con riferimento sia al progetto di vita ed al benessere della persona disabile beneficiaria, sia alle modalità di rendicontazione;
5. beneficiari esclusivi dovranno essere persone con disabilità grave;
6. i beni conferiti dovranno essere destinati esclusivamente alla realizzazione di finalità assistenziali;
7. l’atto istitutivo dovrà individuare il soggetto preposto al controllo delle obbligazioni previste e tale soggetto dovrà essere individuabile per tutta la durata del trust, del vincolo di destinazione o del fondo speciale;
8. la durata del trust, del vincolo di destinazione o del fondo speciale dovrà essere stabilita nella data della morte della persona con disabilità grave beneficiaria della misura e dovrà essere inoltre stabilita la destinazione del patrimonio residuo.

Nel caso in cui il beneficiario deceda prima di coloro che hanno istituito in suo favore il trust, o il vincolo di destinazione o il fondo speciale, il trasferimento dei beni e dei diritti in favore di coloro che ne avevano disposto beneficerà del medesimo regime agevolato.

La legge n. 112/2016 stabilisce, inoltre, che i Comuni possano applicare aliquote ridotte, franchigie o esenzioni relativamente all’I.M.U. in relazione agli immobili o altri diritti reali conferiti nel trust o destinati ad un fondo speciale.

3 – agevolazioni fiscali per le erogazioni liberali:
le erogazioni liberali, le donazioni e gli altri atti a titolo gratuito effettuati da privati nei confronti di un trust o di un fondo speciale sono deducibili del 20% dal reddito complessivo, fino ad un massimo di 100.000,00 €. La misura si applica già dal corrente periodo di imposta (2016).

Il provvedimento, approvato dalla Camera all’inizio del mese di giugno, è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 146 del 24.6.2016.

Fonte: Legge 22 giugno 2016, n. 112 “Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilita’ grave prive del sostegno familiare”. Consulta la legge

Separazione con figli: alcuni consigli pratici

La separazione porta a galla una serie di emozioni negative, quali rabbia, paura, ansia, tristezza, delusione, incertezza. Per non uscirne emotivamente devastati, è importante imparare a gestire correttamente questi sentimenti, prendendosi cura di sé e, quando necessario, chiedendo aiuto ad un esperto che possa fornire un supporto concreto per superare positivamente il momento di difficoltà.

Ciò è ancor più necessario quando ci sono dei figli che contano sul sostegno dei genitori per poter superare il cambiamento che la separazione inevitabilmente comporta.

 

I figli non scelgono la separazione dei genitori

Non ho mai creduto nella teoria del “rimanere assieme per il bene dei figli”: come possono crescere bene figli che vivono ogni giorno il disamore, l’incomunicabilità, il nervosismo, i litigi dei genitori?

Se due persone non si amano più e non vanno più d’accordo, la separazione rappresenta un passaggio inevitabile, doloroso, ma necessario.

Spesso si dimentica, ma va tenuto sempre presente: la scelta di separarsi è dei genitori, non dei figli; i figli subiscono la decisione dei genitori e le sue conseguenze.

Come affrontare la separazione quando ci sono figli?

 

Cosa fare, in concreto?

Nel delicato momento della separazione, i figli hanno più che mai bisogno dell’aiuto e del sostegno dei genitori, di entrambi. Agire secondo buon senso e senza farsi travolgere della emozioni negative è fondamentale.

Ecco alcuni consigli pratici, frutto dell’esperienza professionale maturata in questi anni quale avvocato matrimonialista, oltre che dell’esperienza personale come genitore.

–  Dedicare più tempo possibile ai figli.

In questo particolare momento, i figli hanno bisogno della presenza dei genitori; è importante, dunque, cercare di essere il più presenti possibile, dedicare loro tempo di qualità. I momenti trascorsi assieme devono essere un’occasione per parlare, confrontarsi, chiedere ai figli quali siano le loro emozioni e cercare di capirle ed affrontarle assieme.

Gli psicologi consigliano di incoraggiare al dialogo il bambino esprime il desiderio di parlare delle emozioni che avverte, ma senza forzature; è essenziale ascoltare i figli e rassicurarli sul fatto che mamma e papà per loro ci saranno sempre, anche se non abiteranno più assieme. Alle domande dei figli è bene rispondere sinceramente, le bugie possono creare illusioni ed in tal modo minare il rapporto di fiducia con l’adulto.

– Giocare assieme ai figli.

Molte volte, specialmente quando i figli sono piccoli, lo scambio verbale non è la strada migliore, in quanto non tutti i bambini sono pronti ad esprimere a parole i loro sentimenti: trascorre momenti ludici, giocare e disegnare assieme può essere utile a capire, attraverso la rappresentazione del gioco o i disegni, quali siano le emozioni che attraversano il bambino.

– Ci vuole pazienza.

Mantenere la calma anche quando i bambini dicono qualcosa di sleale o scorretto è fondamentale. Spesso l’atteggiamento prepotente è una forma di reazione e difesa, esprime una difficoltà del bambino a razionalizzare quanto gli sta accadendo. Il bambino deve sentirsi accolto dal genitore sempre, anche quando sbaglia: se dice qualcosa di offensivo o se afferma qualcosa che non è vero, è importante spiegargli il vostro punto di vista, senza arrabbiarsi e soprattutto senza tuttavia denigrare o svilire l’altro genitore.

– L’ex rimane sempre l’altro genitore.

I bambini non devono mai essere messi nelle condizioni di dover fare una scelta tra l’uno o l’altro genitore; devono crescere con la certezza che entrambi sono e rimarranno presenti nella loro vita, sebbene con modalità diverse rispetto a quando la famiglia era unita.

– Conservare le abitudini del bambino.

E’ importante che, anche dopo la separazione dei genitori, il bambino continui a mantenere la rete sociale e di relazione che aveva in precedenza ed a fare le cose che fanno i bambini della sua età: se prima della separazione trascorreva qualche pomeriggio con i nonni, se andava a calcio o in piscina, continuare a farlo anche quando i genitori sono separati gli consente di mantenere delle certezze, dei punti di riferimento utili a superare il cambiamento imposto dalla separazione dei genitori.

– Prendere tempo per sé stessi.

Prendersi cura di sé, andare a concerti, cinema, teatro, uscire con gli amici, dedicarsi allo sport o a qualche hobby è importante, ed anzi fondamentale, per riconquistare fiducia in sé stessi, essere più sereni e in questo modo aiutare meglio i figli a superare il momento della separazione. Se i genitori stanno bene, stanno bene anche i figli;

– Rivolgersi ad esperti.

In caso di difficoltà, è sempre utile rivolgersi a professionisti (psicologi, psicoterapeuti, avvocati) esperti nella gestione delle vicende separative che possono fornire un sostegno ed un supporto competente ed attento.

 

Come avvocato che da anni si occupa di controversie familiari, credo sia soprattutto importante, prima di prendere qualsiasi iniziativa, informarsi sui propri diritti e sui diritti dei figli, in modo da poter assumere decisioni consapevoli e tutelanti per sé e per i figli.

Separarsi non vuol dire fare la guerra all’altro. La separazione è un momento di passaggio, è una fase della vita: se gestita con attenzione, consapevolezza, buon senso e – permettetemi – con l’aiuto dei professionisti giusti, può avvenire senza traumi e nel pieno rispetto dei diritti di tutte le persone coinvolte.

 

All’ex coniuge che convive non spetta l’assegno di divorzio

Il matrimonio crea un vincolo di solidarietà tra i coniugi che, per legge, permane anche dopo lo scioglimento del rapporto coniugale mediante il divorzio e fonda il diritto del partner meno abbiente a ricevere dall’altro un contributo economico, l’assegno divorzile, appunto.
Presupposto indefettibile per il riconoscimento dell’assegno divorzile è che vi sia una disparità economica tra gli ex coniugi.
Inoltre, è necessario che il richiedente dimostri di non avere mezzi adeguati per mantenere il tenore di vita avuto durante il matrimonio e di non avere la possibilità, per ragioni obiettive, di procurarseli.
Tuttavia, vi sono delle ipotesi in cui, anche in presenza di questi presupposti, l’assegno post-matrimoniale non viene riconosciuto: una è quella in cui l’ex coniuge abbia instaurato una convivenza di fatto con un’altra persona.

Ecco, al riguardo, un caso che è stato recentemente affrontato dallo studio innanzi al Tribunale di Bologna  e deciso con la sentenza n. 671/2016.

La vicenda

Nel procedimento di divorzio, la moglie, già titolare di un assegno di mantenimento stabilito nella separazione, ha chiesto il riconoscimento di un assegno divorzile, tra l’altro, di importo più elevato di quello fissato nella separazione, sostenendo che le sue condizioni economiche erano nel tempo peggiorate.
Il marito si è opposto, rilevando che la moglie aveva in corso da anni uno stabile rapporto di convivenza di fatto con altro uomo.
A dimostrazione della convivenza sono stati depositati in giudizio i certificati anagrafici storici dello stato di famiglia della moglie, da cui risultava la compresenza stabile e continuativa nel tempo della moglie e del compagno nella medesima famiglia anagrafica.

La decisione

Il Tribunale di Bologna ha rigettato la domanda della moglie, ritenendo che il rapporto di convivenza di fatto faccia venir meno il diritto all’assegno di divorzio, poiché scioglie definitivamente ogni legame con la precedente convivenza matrimoniale.
La decisione è in linea con l’orientamento uniforme della Corte di Cassazione sul tema: se il coniuge divorziato forma una nuova famiglia, anche di fatto, si rescinde ogni connessione con il tenore ed il modello di vita che avevano caratterizzato il precedente matrimonio e ciò fa venir meno ogni presupposto per il riconoscimento dell’assegno di divorzio.
Ed anche nel caso in cui la famiglia di fatto, successivamente, venga meno, il diritto all’assegno è comunque perduto, in quanto – sottolinea la Cassazione nella sentenza 6855/2015 (richiamata anche nella pronuncia in esame) – “la formazione di una famiglia di fatto è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, e dunque comporta la piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà post-matrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo”.
Se l’ex coniuge convive, dunque, non ha diritto all’assegno di divorzio.

Come dimostrare il rapporto di convivenza?

Nel giudizio in esame è stato fondamentale riuscire a dimostrare la sussistenza del rapporto di convivenza, e questo è stato possibile mediante il deposito della certificazione anagrafica storica dello stato di famiglia.
Al riguardo, il Tribunale ha sottolineato che la denuncia dello stato di famiglia fatta all’autorità comunale, come ogni altra dichiarazione resa a terzi, estranei al processo, non ha valore confessorio, ma di semplice presunzione superabile con ogni mezzo, e dunque anche mediante testimoni. Le testimonianze raccolte nel procedimento, però, non hanno smentito le risultanze documentali, mentre la tesi avversaria (la moglie si è difesa sostenendo che si trattava di mera coabitazione, dovuta ad un rapporto di amicizia ed alla disponibilità dell’uomo ad accoglierla in casa propria in cambio di collaborazione domestica), non ha trovato riscontro.

Fonte: sentenza Trib. Bologna n. 671/16 del 15.3.2016

Stepchild Adoption: per la Cassazione è sì

Prima pronuncia della Corte di Cassazione in merito ad un caso di adozione del figlio biologico del partner in una coppia omosessuale (cd. stepchild adoption), questione sulla quale manca, come ho già evidenziato in un precedente articolo del blog, una disciplina normativa.
Ecco, sintesi, la vicenda giunta al vaglio dei giudici delle leggi: una coppia di donne, legate da una relazione affettiva molto forte e dal progetto, condiviso, di costruire una famiglia, decidono concordemente di mettere al mondo un figlio. A tale scopo, una delle due ricorre alla fecondazione assistita all’estero. Nasce così una bimba, figlia biologica di una delle due partner, che vive con entrambe in un contesto familiare e di relazioni affettive, sociali e scolastiche analogo quello di tutte le bambine della sua età. La compagna della madre (cd. madre sociale) si rivolge al tribunale chiedendo il riconoscimento giuridico del rapporto genitoriale già di fatto in essere mediante l’adozione della minore ai sensi dell’art. 44, lett. d) della legge 184/83 (adozione in casi speciali).
Il Tribunale per i minorenni, prima, e la Corte d’Appello, poi, accolgono la domanda, avendo verificato – dopo approfondite indagini – che ciò risponde all’interesse della bambina, dato il profondo legame sussistente e la relazione genitoriale a tutti gli effetti presente anche con la madre sociale.
La decisione della Corte d’Appello viene impugnata dal Procuratore della Repubblica che contesta due profili: da un lato, la mancata nomina di un curatore speciale a tutela degli interessi della minore della cui adozione si discute, dall’altro, l’insussistenza dello stato di abbandono della minore che escluderebbe, in sè, la possibilità di poterla dichiarare adottabile.
La Suprema Corte ha rigettato entrambi i motivi di ricorso della Procura, ritenendo non obbligatoria la nomina di un curatore speciale del minore per l’adozione in casi particolari.
Quanto allo stato di abbandono – specifica la Cassazione – solo l’adozione legittimante richiede come presupposto indefettibile lo stato di abbandono del minore; per l’adozione in casi speciali, quale quella richiesta dalla madre sociale, è sufficiente che venga constatata l’impossibilità dell’affidamento preadottivo, e dunque anche la mera impossibilità giuridica, presupposto presente nel caso in esame.
Insomma, i motivi contestati dalla Procura, relativi essenzialmente alla regolarità formale della procedura, sono stati ritenuti infondati, con conseguente conferma della pronuncia di adozione della minore.

L’adozione del figlio della partner nella coppia same-sex è dunque possibile, anche se in forma di adozione speciale, non legittimante, e non come adozione piena. Per le differenze tra i due tipi di adozione, vi invito a leggere la pagina del sito dedicata alle adozioni.

Fonte: Cassazione civile sentenza n. 12962 del 22.6.2016

Casa coniugale in comodato: in caso di separazione, va assegnata?

In tempo di crisi economica, accade sempre più spesso che i giovani sposi vadano ad abitare in un immobile di proprietà dei genitori o dei parenti di uno dei due, concesso in comodato senza termine di durata. A quel punto, l’immobile diventa sede della vita familiare e, se i coniugi si separano, per il proprietario della casa può essere difficile rientrare in possesso del bene, specie se dall’unione sono nati figli.

Al riguardo, la Cassazione in diverse pronunce – e da ultimo nella sentenza n. 24618/15 – ha chiarito che quando la casa familiare é costituita da immobile concesso in comodato senza limiti di durata a favore del nucleo familiare, in caso di separazione personale dei coniugi, l’interesse dei figli a conservare l’ambiente domestico e di vita prevale sull’interesse del proprietario dell’immobile (comodante) a rientrare nella disponibilità del bene. L’abitazione, pertanto, va assegnata al genitore convivente con i figli, indipendentemente da chi ne sia proprietario.

Il diritto di proprietà va, dunque, sacrificato a vantaggio del diritto dei figli a mantenere, anche dopo la separazione dei genitori, il consueto ambiente di vita. Del resto, secondo la normativa in materia di contratto di comodato (art. 1803 e segg. Codice civile), se un bene è stato dato in comodato e le parti non hanno fissato un termine finale per la restituzione del bene, la scadenza del contratto si desume dall’uso per il quale il bene è stato concesso in comodato: ne consegue che, quando una casa è stata data in comodato, ad esempio, al figlio, perchè vi viva con la famiglia, la famiglia potrà continuare a risiedervi anche se il figlio e la moglie si separano.

Particolarmente interessante sul tema è una recente decisione del Tribunale di Aosta, con cui è stato chiarito che la destinazione dell’immobile ad abitazione familiare va puntualmente dimostrata.

Il provvedimento, pronunciato in sede presidenziale nell’ambito di un giudizio di separazione, riguardava una coppia con un figlio minorenne, affidato in via condivisa e collocato presso la madre. Nonostante la previsione della collocazione abitativa con la madre, il giudice non ha accolto la domanda della medesima di assegnazione della residenza familiare (immobile di proprietà dei genitori del marito e concesso in comodato da questi, che poi ne avevano chiesto la restituzione) dichiarando il non luogo a provvedere sul punto.

Secondo il tribunale, in caso di comodato senza termine finale, la volontà di assoggettare il bene a vincoli d’uso particolarmente gravosi, quali la destinazione a residenza familiare, non può essere presunta, ma va di volta in volta accertata; ne consegue che,in mancanza di prova, dev’essere adottata la soluzione più favorevole per il comodante. L’immobile, pertanto, non può essere assegnato e va restituito al proprietario.

Fonte: Trib. Aosta ord. 13.1.2016 (est. Colazingari)

Le convivenze di fatto in 10 punti

La  legge n. 76/2016 del 20.5.2016 (legge Cirinnà), che entrerà in vigore il 5 giugno 2016, regola due diversi istituti: le unioni civili tra persone dello stesso sesso e le convivenze di fatto tra persone etero o omosessuali.
L’attenzione dei media e dei commentatori si è focalizzata finora sulle unioni civili, ma ad un’attenta lettura della nuova legge non può sfuggire come in realtà la disciplina più rivoluzionaria sia quella delle coppie di fatto. Ne esaminiamo di seguito i profili essenziali.

1. Cos’è la convivenza di fatto?

Sono considerati “conviventi di fatto” due persone unite stabilmente da legami di coppia affettivi e di reciproca assistenza morale e materiale, non legate da parentele, affinità, adozione, matrimonio o unione civile.
Per assumere rilievo giuridico, la convivenza non richiede una dichiarazione formale innanzi all’ufficiale di stato civile. Per l’accertamento della convivenza, secondo la legge, si fa riferimento alla certificazione dello stato di famiglia anagrafico. Non è escluso, tuttavia, che la prova del rapporto di convivenza possa essere fornita anche in altri modi.

2. Rapporti patrimoniali e personali tra i conviventi

Con la recente riforma sono stati estesi ai conviventi una serie di diritti e doveri reciproci tipici del matrimonio, più esattamente i conviventi sono tenuti a rispettare
– l’obbligo di coabitazione,
– l’obbligo di reciproca assistenza morale ed economica,
– il dovere di contribuire alle esigenze della famiglia.

Il rapporto di convivenza determina inoltre il sorgere di alcuni diritti reciproci in capo ai conviventi:
– il diritto al risarcimento del danno in caso di decesso del partner o di lesioni ai danni del medesimo ( in questo caso la legge ha trasferito in precetto l’elaborazione giurisprudenziale in materia di responsabilità civile),
– i diritti spettanti al coniuge in materia di assistenza penitenziaria ,
– il diritto al subentro nel rapporto di locazione;
– il diritto di visita e di accesso alle informazioni sanitarie personali, in caso di malattia o di ricovero del convivente.

E’ infine previsto, in caso di cessazione della convivenza, il diritto agli alimenti in favore l’ex convivente che versi in stato di bisogno.

3. Rapporti con i figli

Le differenze di trattamento della convivenza rispetto al matrimonio e all’unione civile attengono il rapporto tra i conviventi, non il rapporto coi figli: grazie alla legge 219/2012, infatti, la posizione giuridica dei figli nati nel matrimonio e fuori da esso è del tutto equivalente.

4. Designazione preventiva del convivente in caso di malattia incapacitante o di morte

La legge 76/2016 è particolarmente innovativa sotto questo profilo: il convivente potrà designare l’altro convivente come suo rappresentante, con poteri pieni o limitati, per le decisioni sanitarie in caso di malattia che comporti incapacità di intendere e di volere.
Allo stesso modo, potrà designarlo come rappresentante in caso di morte, per le decisioni che riguardino la donazione degli organi, il trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie.
Per la designazione è sufficiente una dichiarazione scritta autografa, senza necessità di autentica da parte di pubblico ufficiale. In caso di impossibilità di redigerla, è necessaria la presenza di un testimone.
Nulla di simile è previsto nell’ordinamento per il matrimonio nè per l’unione civile.

5. Amministrazione di sostegno, interdizione e curatela del convivente

A mente della legge 76/2016, il convivente potrà essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno del partner  e ha diritto ad essere informato su eventuali procedimenti relativi alla limitazione della capacità giuridica del compagno.

6. Interruzione della convivenza

La legge 76/2016 non regola le modalità di interruzione della convivenza di fatto.
L’unica norma che riguarda espressamente la cessazione della convivenza è il comma 65 dell’art. 1 relativo al diritto agli alimenti per l’ex convivente.

7. Diritto agli alimenti in favore dell’ex convivente

La legge 76/2016 stabilisce che, in caso di cessazione della convivenza di fatto, l’ex convivente ha diritto di ricevere dall’altro gli alimenti.§
Al riguardo, è bene sottolineare che la prestazione alimentare non va confusa con il contributo al mantenimento: l’obbligo di mantenimento dopo la cessazione della convivenza, originariamente presente nel disegno di legge, é stato espunto dalla versione finale approvata dal Parlamento.
Gli alimenti sono dovuti soltanto se l’ex convivente versa in stato di bisogno e non dispone dei mezzi per sopravvivere: una situazione di difficoltà economica estrema, ben diversa dal mantenimento che é finalizzato a consentire la conservazione del tenore di vita goduto durante il rapporto di convivenza.
L’obbligazione alimentare va disposta dal giudice, su richiesta dell’avente diritto.
In forza della legge 76/2016, il convivente é stato inserito tra gli obbligati alla corresponsione della prestazione alimentare, dopo il coniuge, gli ascendenti ed i discendenti e prima dei fratelli e delle sorelle.

8. I contratti di convivenza

La legge 76/2016 disciplina i contratti di convivenza, ovvero gli accordi con i quali le parti possono regolare gli aspetti economici della loro convivenza, già in precedenza ammessi nell’ordinamento per interpretazione giurisprudenziale.
Sono specificamente disciplinati i requisiti di forma, validità e sostanza della pattuizioni economiche tra i conviventi.

9. Impresa familiare tra conviventi

In materia di impresa familiare, la legge 76/2016 ha introdotto il nuovo articolo 230 ter nel Codice Civile che garantisce al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente una partecipazione agli utili dell’impresa, ai beni acquistati ed agli incrementi.
La partecipazione è proporzionale al lavoro prestato e non spetta quando il rapporto di collaborazione sia ufficializzato in forma societaria o di rapporto di lavoro subordinato.

10. Tutela del convivente in ambito successorio

La legge 76/2016 non prevede diritti successori particolari per il convivente, ma solo un diritto di abitazione: in caso di morte del proprietario della residenza comune, il partner potrà continuare ad abitare la casa per un determinato periodo di tempo, ed in particolare:
– per due anni, in caso di convivenze di durata inferiore al bienno;
– per un periodo corrispondente alla durata della convivenza fino ad un massimo di cinque anni, nel caso in cui la convivenza sia durata più di due anni;
– per un periodo non inferiore a tre anni, indipendentemente dalla durata della convivenza, se coabitino con figli minorenni o disabili nati dall’unione. Inspiegabilmente, non è prevista dalla legge alcuna tutela quando vi siano figli maggiorenni non economicamente autosufficienti.
Il diritto di abitazione viene  meno quando il convivente cessi volontariamente di abitare nella casa comune e in caso di matrimonio, unione civile o nuova convivenza di fatto.

Fonte: Legge 20.5.2016 n. 76.

Stepchild adoption: la parola ai giudici

Le norme sull’adozione del figlio del partner (stepchild adoption) nelle coppie dello stesso sesso, originariamente presenti nel DDL Cirinná, sono state stralciate dalla stesura finale del progetto di legge approvata dalla Camera di deputati l”11 maggio scorso. Nella legge sulle unioni civili  di prossima entrata in vigore é così rimasta una lacuna normativa che la giurisprudenza si trova a dover colmare, alla luce delle emergenze sociali che premono per il riconoscimento di nuove forme di genitorialità.
Risale a qualche settimana fa la pubblicazione di una nuova sentenza con cui il Tribunale per i minorenni di Roma ha riconosciuto l’applicabilità dell’istituto dell’adozione in casi particolari (ex art. 44, lettera d), legge 184/1983) del figlio nell’ambito di una coppia omosessuale.
La sentenza è passata alla cronaca per essere la prima pronuncia riguardante una coppia di uomini e il figlio nato all’estero da fecondazione eterologa. E’ anche il primo caso in cui la Procura, che pure aveva espresso parere contrario, non ha impugnato la decisione, consentendone così il passaggio in giudicato.

Il caso deciso dal Tribunale dei minori

La vicenda riguardava, più specificamente, una coppia omosessuale aveva contratto matrimonio in Canada ed in Canada era nato il figlio, con maternità surrogata a seguito di fecondazione in vitro, come consentito dalla legge canadese; dalla nascita – cui entrambi i coniugi avevano assistito – il neonato era divenuto a tutti gli effetti loro figlio, secondo la legge canadese, e con loro era rimasto dapprima in Canada, poi in Italia, dove veniva cresciuto dalla coppia omogenitoriale con il supporto delle rispettive famiglie d’origine.
In Italia, il coniuge del genitore biologico ha chiesto di poter adottare il figlio del partner nelle forme dell’adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 44, lettera d) della legge 184/1983.

L’adozione in casi particolari
Al riguardo, va precisato che l’adozione in casi particolari è disciplinata dall’art. 44 della legge n. 184/83 che, elenca quattro ipotesi tassative a salvaguardia, nelle lettere a) e b), del rapporto che si costituisce tra il minore ed un nucleo familiare con cui in precedenza ha già sviluppato legami affettivi, mentre nelle lettere c) e d), i minori che versano in specifiche situazioni di disagio.
La specificità dell’adozione in casi particolari è data dal fatto che, a differenza dell’adozione ordinaria o “piena”, i legami del minore con la famiglia di origine permangono e che in tale tipo di adozione gli adottandi non acquistano alcun diritto su eventuali beni del minore adottato. Il minore, invece, è equiparato ai figli legittimi e concorre come ogni altro figlio nella divisione ereditaria dei beni degli adottanti.
Inoltre, a differenza dell’adozione ordinaria, l’adozione in casi particolari può, nei casi previsti dalla legge, essere revocata.
Presupposto fondamentale è che i genitori dell’adottando prestino il proprio assenso, qualora siano in grado di poterlo fornire.

La decisione del T.M.
Sulla scia delle precedenti pronunce (sentenze n. 1055 del 30.7.2014 e 291 del 22.10.2015), il Tribunale ha ritenuto che l’adozione in casi particolari vada disposta, a tutela del prioritario interesse del minore: con l’adozione in casi particolari il legislatore ha voluto ampliare il novero dei soggetti legittimati a diventare genitori, semplificando la procedura di adozione allo scopo di consolidare i rapporti tra il minore e le persone che già si prendono cura di lui, prevedendo un’adozione con effetti più limitati e presupposti meno rigorosi rispetto a quella legittimante.
Non è dunque necessario che il minore si trovi in stato di abbandono (come richiesto per l’adozione ordinaria), presupposto per l’adozione in casi particolari è – nella vicenda esaminata dal Tribunale – l’accertata impossibilità di procedere all’affidamento preadottivo (lett. d) art. 44).
Nessun rilievo assume al riguardo la circostanza che il richiedente l’adozione non sia coniugato per il nostro ordinamento con il padre biologico del bambino di cui chiede l’adozione: la lettera d) dell’art. 44 non prevede il vincolo coniugale come presupposto, e nel nostro ordinamento non c’è un esplicito divieto alla persona single di adottare, indipendentemente dal suo orientamento sessuale.
Osserva il collegio come diversi giudici abbiano ritenuto di applicare l’adozione in casi particolari anche ai conviventi di fatto (Trib. minorenni Milano 626/2007; C. app. Firenze 1274/2012), ed operare una distinzione tra conviventi eterosessuali ed omosessuali sia contrario ai principi costituzionali, oltre che ai principi della Convenzione Europea sui diritti dell’Uomo, art. 8 e 14, più volte ribaditi dalle pronunce della Corte Europea dei Diritti Umani.
Dunque, nel caso di impossibilità di affidamento preadottivo, non va indagata la sussistenza dello stato di abbandono del minore, ma la decisione del Tribunale dei minori dev’essere fondata sul “riscontro dell’idoneità dell’adottante, valutabile discrezionalmente dal giudice sulla base dell’esclusivo interesse del minore“: non si tratta di rispondere all’esigenza di riconoscimento di una bigenitorialità non ancora consentita dalla legge, ma il Giudice è chiamato valutare il legame esistente tra il minore e l’adottando considerato autonomamente, e non con riferimento alla relazione con il genitore biologico del minore, “escludendo alcuna sovrapposizione del rapporto che lega le due figure adulte con quello di tipo filiale del ricorrente con il minore, riconoscendo ad esso un contenuto di diritti/doveridi fatto già sussistenti ed attuati“.
E nel caso in esame, dopo aver svolto approfondite indagini mediante i Servizi sociali sul nucleo familiare, sulla relazione di coppia e sulla relazione coppia-bambino, il Tribunale ha ritenuto rispondente all’interesse del minore essere adottato dal ricorrente.
Fonte: Tribunale minorenni Roma, sentenza 23.12.2015

Quando il figlio va a vivere con l’altro genitore, l’importo dell’assegno va rivisto

Se il figlio cambia la propria residenza prevalente, lasciando l’abitazione di un genitore per andare a vivere con l’altro, il genitore non più convivente non è tenuto a versare all’altro genitore un assegno per il mantenimento del figlio di importo equivalente a quello che riceveva allo stesso scopo prima del cambiamento abitativo.
L’ammontare dell’assegno va ricalcolato, tenendo conto delle attuali diverse condizioni economiche dei genitori, alla luce dell’art. 337 ter, quarto comma, del Codice Civile, in base al quale i genitori provvedono al mantenimento dei figli in proporzione al proprio reddito.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione in un’ordinanza pubblicata lo scorso 27 aprile: la vicenda giunta al vaglio dei giudici di legittimità riguardava un provvedimento con cui la Corte d’Appello di Messina, nell’ambito di un procedimento per modifica delle condizioni di divorzio, dato atto che uno dei figli si era trasferito a vivere dalla madre al padre, aveva deciso che la madre corrispondesse al padre il medesimo importo dell’assegno mensile con cui il padre stesso era stato fino ad allora onerato (€ 400,00 mensili).
La decisione di secondo grado aveva lasciato insoddisfatti entrambi gli ex coniugi: il marito, che ambiva ad un assegno più alto, aveva presentato ricorso in Cassazione sostenendo che non erano stati adeguatamente valutati i redditi della moglie e che non erano state considerate le maggiori esigenze economiche del figlio conseguenti alla sua crescita.
Dal canto suo, la moglie lamentava l’eccessiva onerosità dell’importo posto a suo carico, calcolato, a suo dire, senza tener conto le sue attuali condizioni economiche, che avrebbero giustificato l’esclusione di ogni contributo per i figli.
In buona sostanza, entrambi gli ex coniugi evidenziavano, sebbene per ragioni opposte, un errore di diritto ed una carenza istruttoria relativamente alla valutazione delle loro condizioni economiche attuali. La Corte di Cassazione ha accolto le istanze delle parti, evidenziando che il cambiamento abitativo dei figli impone una rivisitazione dell’assetto economico.
Per quanto riguarda, invece, la questione delle maggiori esigenze economiche dei figli conseguenti alla crescita, nella pronuncia in esame la Suprema Corte pare prendere le distanze dal precedente orientamento interpretativo secondo cui l’aumento delle necessità, essendo connaturato alla crescita non richiede specifica dimostrazione: ha, infatti, precisato che “ai fini di un eventuale aumento dell’importo, si dovrà necessariamente effettuare una valutazione concreta delle esigenze dei figli stessi (ciò ovviamente sempre sulla base delle esigenze economiche dei genitori)”.

Fonte: Corte di Cassazione, Sez. I, ordinanza 8151/2016 del 27.4.2016

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Assegno di mantenimento e pagamento del mutuo

La Cassazione penale è tornata di recente ad affrontare il tema della mancata corresponsione del contributo al mantenimento dei figli da parte del genitore obbligato.
Decidendo in un caso nel quale l’imputato era stato condannato, tra l’altro, ex art. 12 sexies L. 898/70 per essersi sottratto all’obbligo di corresponsione dell’assegno mensile a favore dei figli minori, la Suprema Corte ha ritenuto infondato il motivo di impugnazione proposto dai difensori,i quali avevano evidenziato come il mancato versamento fosse conseguente ad un pregresso accordo tra i genitori e con il quale l’imputato si impegnava a pagare per intero i ratei del mutuo contratto per l’acquisto di un immobile conferito in un fondo patrimoniale, provvedendo così anche alla quota di competenza dell’ex coniuge.
La Cassazione ha chiarito che l‘obbligo di versare l’assegno di mantenimento è inderogabile ed indisponibile e, come tale, non può essere sostituito con prestazioni di altra natura. Oltretutto, nella vicenda specifica, il pagamento delle rate del mutuo era avvenuto in un periodo precedente a quello in cui era stato omesso il versamento dell’assegno.

Fonte: Cass. pen. sent. n. 10944 del 15.3.2016