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Entro quanto tempo si può chiedere il disconoscimento di paternità?

La legge prevede precisi termini di decadenza per l’esercizio dell’azione di disconoscimento di paternità del figlio nato durante il matrimonio: la madre può proporre l’azione di disconoscimento di paternità entro sei mesi dalla nascita del figlio; il marito entro un anno.

L’azione è imprescrittibile – vale a dire non è soggetta a nessun tipo di limitazione temporale – soltanto per quanto riguarda il figlio: in altre parole, soltanto il figlio, una volta raggiunta la maggiore età, potrà in qualsiasi momento chiedere il disconoscimento della paternità legale.

Il termine di sei mesi per la madre e di un anno per il marito-padre legale è stato previsto, com’è evidente, a tutela del figlio: l’ordinamento protegge prioritariamente la posizione dei minori, ai quali vuole garantire la certezza dello status e della condizione di figlio, a discapito della verità biologica.

Il termine di un anno per il marito

Il marito può disconoscere la paternità del figlio avuto dalla moglie entro un anno dalla nascita del bambino oppure entro un anno dal momento in cui è venuto a conoscenza della non paternità, ad esempio, perchè il figlio è nato da una relazione extraconiugale della moglie, oppure perché il marito stesso scopre di essere affetto da impotenza a generare).

Una volta decorso questo termine, il figlio non può più essere disconosciuto dal padre legale.

Non basta il sospetto dell’adulterio

La Corte di Cassazione è recentemente intervenuta sul tema in una decisione relativa ad un caso di adulterio scoperto dal marito a distanza di tempo dalla nascita del figlio.

La Cassazione ha ribadito che il termine di un anno si conteggia dalla data di effettiva conoscenza dell’adulterio, mentre il mero sospetto dell’adulterio non fa decorrere il termine. Spetta al marito che promuove l’azione di disconoscimento fornire la prova del momento in cui egli è venuto a sapere con certezza del tradimento della moglie.

La scoperta dell’adulterio va intesa – sottolinea la Cassazione – non come semplice sospetto, ma come la conoscenza certa di un fatto riferito all’epoca del concepimento e costituito da una vera e propria relazione della moglie con un altro uomo oppure da un incontro idoneo a generare un figlio. Da questa effettiva conoscenza comincia a decorrere il termine di un anno di decadenza dell’azione.

Al contrario, il semplice sospetto del tradimento e della possibile mancanza di paternità non fa decorrere il termine di un anno, come il più contiene il meno, chiariscono i giudici della Cassazione.

Fonte: Cassazione civile, sentenza n. 19732/2017 dell’8 agosto 2017.

Genitori in conflitto: interviene il coordinatore genitoriale

Nelle separazioni ad alta conflittualità, il coordinatore genitoriale, un professionista esterno alla famiglia e super partes nominato dal giudice, ha la funzione di proteggere i minori dalle possibili conseguenze negative della litigiosità dei genitori, affiancando e supportando i genitori nell’esercizio della responsabilità genitoriale e dell’affidamento dei figli.

In una recente sentenza relativa ad un caso di separazione caratterizzata da un’elevata conflittualità tra i coniugi, il Tribunale di Mantova ha disposto che i rapporti genitori-figli vengano monitorati da una figura terza rispetto alla famiglia, il cosiddetto coordinatore genitoriale o educatore professionale, un professionista incaricato di mediare il conflitto e fornire supporto concreto ai genitori.

Più esattamente, al coordinatore genitoriale sono stati assegnati i seguenti compiti:
a) monitorare l’andamento della relazione genitori-figli, mediando i rapporti e fornendo indicazioni correttive di eventuali comportamenti disfunzionali dei genitori;
b) aiutare i genitori nelle decisioni relative ai figli, vigilando sull’osservanza del calendario delle visite con il genitore non convivente ed in caso di disaccordo dei genitori, assumendo le decisioni opportune nell’interesse dei figli.
c) Il coordinatore genitoriale è tenuto, poi, a riferire l’esito del suo operato al Giudice Tutelare.

Il caso

La sentenza in oggetto è stata emessa a conclusione di un procedimento di separazione caratterizzato da un’accesa litigiosità tra i coniugi, genitori di due figli minori.
I coniugi avevano formulato entrambi domanda di addebito della separazione (la moglie sostenendo l’infedeltà del marito, il marito rappresentando il distacco affettivo ed atteggiamenti offensivi della moglie) e nel corso del giudizio avevano manifestato un profondo risentimento reciproco.
La conflittualità tra gli adulti si era proiettata anche nei rapporti con i figli: la moglie aveva più volte impedito gli incontri tra i figli ed il padre (genitore non convivente), frapponendo ostacoli alle visite ed impedendo i contatti telefonici, aveva inoltre interrotto indebitamente la frequentazione tra i minori e la famiglia paterna, come accertato dall’indagine dei Servizi Sociali e dalla consulenza tecnica d’ufficio (C.T.U.).
Peraltro, i Servizi Sociali e la C.T.U. avevano verificato, in ordine all’affidamento dei figli, che entrambi i genitori erano in grado di gestire singolarmente i minori e che, pertanto, la modalità di affidamento meglio rispondente all’interesse dei figli era l’affidamento condiviso.

La decisione

A fronte di tale delicata situazione, il Tribunale ha aderito alle conclusioni degli esperti (consulente tecnico e Servizi sociali), disponendo l’affidamento condiviso dei figli ad entrambi i genitori.

La diversa previsione dell’affidamento ad uno solo dei genitori (affidamento esclusivo) richiede, infatti, che risulti dimostrata l’inidoneità educativa o la manifesta carenza dell’altro genitore, cosa non presente nel caso in esame, dato che la consulenza e gli operatori sociali avevano riconosciuto la capacità genitoriale di ciascuno dei coniugi singolarmente.

E’ stato poi previsto l’esercizio separato della responsabilità genitoriale nei tempi in cui i figli sono con ciascuno dei genitori ed è stata disposta la collocazione abitativa dei figli con la madre, dopo aver accertato che i figli avevano instaurato un più solido legame affettivo con essa e che la madre era in grado di offrire maggiore stabilità e sicurezza psicologica.

Le condotte ostruzionistiche della madre, consistite nell’aver ostacolato i rapporti padre-figli, sono state sanzionate con la condanna della signora a risarcire i danni sofferti da quest’ultimo in conseguenza del comportamento ostacolante, in attuazione dell’art. 709 ter c.p.c. L’importo del risarcimento è stato fissato, in via equitativa in 1.000,00 euro.

In una vicenda così conflittuale è stata lungimirante la decisione del Tribunale di non lasciare i genitori da soli a gestire l’affidamento condiviso dopo la separazione: seguendo le indicazioni della C.T.U., i giudici di Mantova hanno previsto l’affiancamento di un coordinatore genitoriale, una figura professionale specializzata, con compiti di supporto, mediazione, risoluzione dei conflitti , oltre che di vigilanza sull’attuazione delle regole dettate nella sentenza e di intervento diretto nell’assunzione delle decisioni relative ai figli in caso di disaccordo dei genitori.

Del suo operato il coordinatore genitoriale dovrà riferire al Giudice Tutelare nel termine assegnato dal Tribunale.

 

Fonte: Tribunale di Mantova, sentenza 5.5.2017 (est. Bernardi)

Adozione: quando l’età non conta

Il Tribunale dei minorenni di Bologna con un provvedimento innovativo ha concesso ad una coppia una deroga ai limiti d’età previsti per l’adozione.
Il dato burocratico dell’età è stato ritenuto secondario rispetto alla possibilità di dare ad un bambino in condizione di abbandono la possibilità di crescere in una famiglia.

La vicenda

Marco e Laura (i nomi sono di fantasia per rispetto della privacy) sono due coniugi italiani, sposati da circa sette anni, Marco ha 65 anni mentre Laura ne ha 51; stante l’impossibilità di avere figli biologici, hanno deciso di “donare” la vita in un modo forse ancora più meraviglioso e, sicuramente, più altruistico: adottando.

L’idoneità all’adozione internazionale

La coppia segue tutti i passaggi necessari: si rivolge al Tribunale per i Minorenni dell’Emilia Romagna e avvia le pratiche per richiedere l’idoneità all’adozione internazionale; durante la prima fase i coniugi vengono sottoposti a vari colloqui con psicologi ed esperti, al fine di valutare le loro capacità genitoriali e personali. Purtroppo, come a volte succede, il percorso subisce una prima interruzione: il T.M. decreta l’inidoneità dei coniugi all’adozione internazionale.

Marco e Laura però non si perdono d’animo e propongono reclamo avverso il provvedimento. La Corte d’Appello di Bologna accoglie il reclamo e riconosce la piena attitudine di Marco e Laura all’adozione internazionale.

I coniugi hanno finalmente la possibilità di realizzare il proprio progetto genitoriale, accogliendo un bambino presso il proprio nucleo.

L’Ente e l’abbinamento con il bambino

A questo punto, infatti, non rimane che rivolgersi ad un Ente accreditato che curi le pratiche dell’abbinamento: quel percorso, cioè, che accosta un bambino straniero in stato di adottabilità con i due futuri nuovi genitori, attraverso una serie di passi che porteranno il minore ad entrare gradualmente nella nuova famiglia adottiva.

La coppia segue tutti i corsi predisposti dall’Ente e nel frattempo vengono presi i contatti con un istituto sudamericano: in pochi mesi si concretizza l’abbinamento e la coppia conosce – tramite fotografie e relazioni – il piccolo Francisco (anche questo nome di fantasia) che, a sua volta, riceve informazioni sulla sua futura famiglia italiana che si sta preparando ad accoglierlo.

L’autorizzazione negata

Resta da ottenere l’autorizzazione da parte della C.A.I. (Commissione per le Adozioni Internazionali) e qui la storia di Marco e Laura affronta un nuovo ostacolo: dalla Commissione, infatti, giunge una notizia “inaspettata”: c’è un problema con l’età di Marco.

Da un controllo sulle età dei genitori e del minore, è risultato che Marco ha 10 anni e 5 mesi più del piccolo Francisco e questo rende inidonea la coppia.

La Legge sull’adozione (legge n. 184/1983), infatti, prevede che tra il figlio minore e i genitori debbano intercorrere più di diciotto anni e meno di quarantacinque anni: tale forbice può essere parametrata anche solo ad uno dei coniugi (se più giovane), purché l’altro non superi di più di dieci anni il limite massimo imposto dalla legge.

Nel caso, poiché Marco ha 65 anni, la coppia avrebbe potuto adottare un bambino dai 10 anni in su, perché in tal modo non si sarebbe oltrepassata la “linea limite” dei 45+10 anni tracciata dalla deroga normativa. Francisco, invece, ha solo 9 anni e mezzo.

Lo sgomento dei coniugi è inevitabile, soprattutto considerati i mesi di attesa e di preparazione.

Il ricorso al Tribunale dei minori

Ma neppure questo nuovo ostacolo ferma Marco e Laura: depositano un nuovo ricorso al Tribunale dei minorenni per chiedere una deroga al limite della differenza d’età, tenendo conto dell’interesse del minore ad essere adottato.

Nel ricorso, i coniugi rappresentano le circostanze specifiche della vicenda: il bambino era di fatto già entrato “in contatto” con i futuri genitori (seppur “solo” attraverso foto e informazioni) ed era stato già“preparato” al suo futuro ingresso in una famiglia che lo avrebbe potuto finalmente crescere serenamente; a questo si aggiungeva poi che il minore appartiene ad una minoranza etnica (afro-colombiana) e tale caratteristica, unita all’età ormai pre-adolescenziale, avrebbe sicuramente compromesso una futura adozione nazionale/internazionale; erano trascorsi già diversi anni dal momento in cui il bambino era stato dichiarato in stato di adottabilità e affidato presso un istituto familiare. Doveva assolutamente considerarsi, infine, come il limite massimo di dieci anni prescritto dalla Legge veniva oltrepassato di soli cinque mesi e questo non poteva certo pregiudicare il benessere di un minore, il quale deve venire sempre posto prima di ogni cosa.

La decisione

L’esito del ricorso non era affatto scontato. I precedenti giurisprudenziali sono pochi ed era il primo caso di questo tipo che il Tribunale per i minori di Bologna si trovava ad affrontare.

Ma tutto si è risolto al meglio: il ricorso è stato accolto in tempi rapidi (due settimane soltanto) e il T.M. ha riconosciuto la deroga per il caso specifico di Marco e Laura, concedendo l’autorizzazione a procedersi con l’adozione di Francisco.

Ciò che il Tribunale ha considerato prioritario è stato salvaguardare l’interesse del minore: per Francisco c’era il concreto rischio di non poter essere più adottato a causa dell’età e degli altri fattori indicati sopra.

Grazie alla sensibilità dei giudici ed alla determinazione di Marco e Laura, Francisco potrà avere un futuro e una famiglia in Italia.

(Avv. Federico Tufano)

Fonte: decreto del T.M. dell’Emilia Romagna dell’11-22 maggio 2017.

Disconoscimento di paternità: la scelta del cognome spetta al figlio

Il padre legale (marito della madre biologica) non può opporsi al disconoscimento di paternità del figlio nato in costanza di matrimonio. Conoscere la verità biologica è un diritto del figlio che non può essere compresso in assenza di concreto pregiudizio per il figlio.

Una volta accertata la paternità biologica in capo ad un’altra persona, soltanto il figlio può decidere se conservare il cognome del marito della madre. Il diritto al nome è, infatti, di un diritto personalissimo che spetta soltanto al diretto interessato,

Questo in estrema sintesi, quanto affermato dai giudici della Corte di Cassazione in una recente sentenza.

Il caso

Il curatore speciale di un minore, nominato dal Tribunale di Milano, aveva proposto azione di disconoscimento della paternità di un minore, adolescente, nato durante il matrimonio da due persone sposate, ma frutto di una relazione extraconiugale della madre con un’altra persona.

Il marito della madre (padre legale del ragazzo) aveva contestato la richiesta di disconoscimento di paternità promossa dal curatore e si era opposto al cambiamento del cognome del figlio, inevitabile conseguenza del disconoscimento.

Le domande del padre legale erano state rigettate sia in primo grado che in appello, in quanto alla luce delle dichiarazioni testimoniali e dell’esito della consulenza genetica da cui risultava l’incompatibilità biologica tra il minore ed il padre legale, i giudici avevano disconosciuto la paternità.

Il padre aveva quindi proposto ricorso per Cassazione, sostenendo, tra l’altro, che i giudici di merito avrebbero dovuto valutare l’interesse del minore rispetto all’azione di disconoscimento di paternità che aveva l’effetto di travolgere la vita del ragazzino, minandone la serenità e l’equilibrio, con effetti imprevedibili nel contesto familiare e scolastico. A sostegno, il ricorrente invocava l’art. 30 della Costituzione che stabilisce che “la legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità“.
Per le stesse ragioni, il padre legale sosteneva, inoltre, che il ragazzo avrebbe dovuto conservare il suo cognome, avendolo portato fin dalla nascita.

Il padre legale non può opporsi al disconoscimento

Le istanze del padre legale sono state respinte dalla Corte di Cassazione.

Riguardo al disconoscimento di paternità, i giudici di legittimità hanno ritenuto che l’art. 30 della Costituzione – invocato dal padre – vada inteso nel senso che è stata rimessa al legislatore la scelta delle procedure che permettono di ottenere il disconoscimento di paternità e di fissare le modalità per far valere la paternità naturale tenendo conto dell’ interesse del minore. Una volta valutata l’opportunità dell’accertamento non esiste un potere di vietare l’accertamento della paternità biologica.
Nella vicenda in esame i giudici di primo grado e d’appello avevano svolto un’accurata valutazione dell’interesse del figlio a conoscere la verità biologica, ritenendo che non vi fosse un concreto pericolo per il figlio e che anzi lo stesso avesse diritto di conoscere la verità sulle sue origini.

La più recente evoluzione interpretativa ha accresciuto l’importanza della verità biologica rispetto al dato giuridico, riconoscendone primario rilievo costituzionale.
Affermano i giudici: non si può negare l’importanza del legame genetico sotto il profilo dell’identità personale, nella quale sonno compresi il diritto di accertare la propria discendenza biologica e il diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini. L’importanza della verità biologica è data anche dal fatto che le azioni volte all’accertamento dello status sono imprescrittibili per il figlio.

La discendenza biologica é elemento dell’identità personale la cui tutela é garantita a livello costituzionale. Conoscere la propria identità biologica risponde all’interesse del figlio, che ha diritto alla propria identità personale e all’affermazione d un rapporto di filiazione veridico.

Nella vicenda l’interesse del minore a conoscere la verità era stato ampiamente vagliato, e i giudici avevano ritenuto che la conoscenza della verità avesse un valore positivo per il figlio non contrastato dal rischio di un pregiudizio concreto, considerato che non era in discussione la bontà della relazione con il padre legale e che anche sul padre biologico non poteva essere espresso un giudizio negativo, anche perché aveva mostrato un serio interesse nei confronti del ragazzo.

La scelta del cognome spetta al figlio

Quanto alla scelta del cognome, la Cassazione ha chiarito che il padre legale non ha legittimazione al riguardo. Il diritto al nome é diritto di natura personalissima e pertanto solo il figlio, diretto interessato può decidere se mantenere il vecchio cognome.

 

Fonte: Corte di Cassazione sentenza civile n. 4020/2017 del 15.2.2017

Omeopatia o cure tradizionali? Quando decide il giudice

Nell’affidamento condiviso le decisioni sulle terapie sanitarie per i figli vanno assunte di comune accordo tra i genitori, trattandosi di “decisioni di maggiore interesse” e cioè decisioni che riguardano aspetti particolarmente importanti della crescita dei figli.
In caso di contrasto tra i genitori sulla scelta delle cure per il figlio è possibile rivolgersi al giudice, il quale prende la decisione in luogo dei genitori tenendo conto esclusivamente dell’interesse del figlio.
In quest’ottica, il Tribunale di Roma in un recente provvedimento (ordinanza 16.2.2017 – est. Velletti) ha stabilito che, quando i genitori non sono d’accordo sulle terapie da far seguire al figlio, devono prevalere le terapie consigliate dal pediatra e dai medici specialisti che hanno in cura il minore: la preferenza, dunque, va alla medicina tradizionale.

La vicenda

Il caso deciso dal Tribunale di Roma riguardava una vicenda in cui tra genitori già in conflitto per altre questioni afferenti la responsabilità genitoriale era insorto un problema di salute della figlia (otite divenuta, poi, ipoacusia).
Il padre voleva seguire le terapie prescritte dalla struttura sanitaria che aveva visitato la minore, la madre, invece, preferiva una cura omeopatica prescritta dal medico di fiducia.
Il Tribunale, assumendo la decisione al posto dei genitori, ha stabilito che la bambina dovesse essere curata secondo la terapia prescritta dalla struttura sanitaria, e dunque con i farmaci tradizionali, prescrivendo al genitore più diligente di accompagnare la figlia alle visite, anche in assenza dell’altro genitore.

E in caso di disaccordo sulle vaccinazioni?

Altra questione sulla quale i genitori avevano opinioni discordanti erano le vaccinazioni.
Anche riguardo ad esse, il Tribunale di Roma ha previsto che i genitori dovessero seguire le indicazioni del pediatra di base in punto alle vaccinazioni cui sottoporre la minore.
Se il pediatra riterrà opportuno sottoporre la minore alle vaccinazioni – ha stabilito il giudice – il genitore più diligente sarà autorizzato a condurre la minore nelle strutture specializzate per eseguire le vaccinazioni indicate dal pediatra e per sottoscrivere i relativi consensi, anche in assenza del consenso dell’altro genitore, ma informandolo di quanto fatto.

Se il genitore dissenziente non rispetta le indicazioni del giudice

Nel provvedimento in oggetto, il genitore contrario alle vaccinazioni e più restio alle cure tradizionali è stato espressamente invitato a non ostacolare la piena attuazione delle prescrizioni del giudice, con avvertimento che, in caso di condotte ostruzionistiche, sarebbero stati applicati a suo carico i provvedimenti sanzionatori di cui all’art. 709 ter c.p.c.

 

Fonte: Ordinanza 16.2.2017 del Tribunale di Roma (est. Velletti).

Scelta del genitore collocatario: al centro l’interesse del minore

Il criterio cui i giudici devono improntare la decisione sull’affidamento e la collocazione dei figli è esclusivamente l’interesse del minore. Nella scelta del genitore collocatario, cioè del genitore con cui il figlio andrà a vivere in via prevalente, ed ugualmente nella scelta del genitore cui affidare i figli dopo la separazione, madre e padre sono sullo stesso piano.

Il principio della maternal preference, vale a dire il principio della prevalenza della madre per i bambini di età scolare e prescolare non ha alcun peso giuridico: al contrario, l’art. 337 ter c.c. e la Costituzione assegnano rilievo al principio della bigenitorialità, e dunque della neutralità del genitore affidatario.

Queste le valutazioni del Tribunale di Milano in un recente decreto con cui è stata disposta la collocazione di un minore presso il padre, ritenuto genitore più maturo della madre.

Il provvedimento afferma a gran voce la parità genitoriale: il padre, al pari della madre, può essere collocatario dei figli quando ciò corrisponde all’interesse dei figli stessi.
Nella decisione sull’affidamento e sulla collocazione dei figli non può essere solo il genere femminile o maschile a determinare la prevalenza per l’uno o l’altro ramo genitoriale: vanno valutate le risorse genitoriali di ciascuno dei genitori e la decisione deve ricadere sul genitore – madre o padre che sia – che esercita in modo più maturo la responsabilità genitoriale.

Il caso

La vicenda giunta all’esame dei giudici milanesi riguardava una minore affidata al Servizio sociale e collocata in via prevalente presso il padre in forza di provvedimento del Tribunale dei Minorenni. A distanza di qualche tempo, la madre si era rivolta al Tribunale chiedendo la modifica delle regole stabilite dal giudice minorile, ed in particolare che la figlia venisse collocata presso di sè.

Il Tribunale ha valutato attentamente le risorse genitoriali di ciascuno dei genitori, ascoltandoli direttamente ed incaricando i Servizi sociali di svolgere accertamenti sulla relazione tra la bambina ed i genitori, anche mediante audizione della minore (delegata ai Servizi in considerazione dell’età e delle condizioni di fragilità della minore).

Dall’esame della relazione informativa dei Servizi sociali il Tribunale ha ritenuto di escludere al momento il rientro della minore presso la madre, poichè poco collaborante con gli operatori (la madre aveva tenuto un atteggiamento estremamente critico, rendendo dichiarazioni al confine del disagio psichico e manifestando ambivalenza nei confronti degli interventi degli operatori) e non in grado di garantire alla figlia un idoneo ambiente domestico, ossia un ambiente domestico uguale o migliore a quello garantito dal padre.

Per contro, il padre è risultato figura matura nella responsabilità genitoriale, poichè molto focalizzato sull’effettivo interesse della figlia, attento all’educazione, alla salute ed al percorso di vita della minore, e rispettoso del diritto della madre di accedere alla figlia.
Il padre, infatti, non aveva ostacolato il rapporto tra la minore e la madre ed anzi, aveva favorito il rapporto, ampliando i tempi delle visite della madre e occupandosi in prima persona dell’accompagnamento e del prelievo della bambina in occasione degli incontri con la mamma. Anche sotto questo profilo, dunque, il padre si era dimostrato genitore adeguato a tutelare appieno l’interesse della figlia.

Il ricorso della madre volto ad ottenere la collocazione abitativa della figlia è stato rigettato. La minore è rimasta affidata ai Servizi sociali e continuerà a vivere con il padre.

Fonte: Tribunale di Milano, decreto 19.10.2016 (est. Buffone).

Sanzioni per il genitore che viola il dovere di favorire il rapporto tra il figlio e l’altro genitore

Anche se i genitori sono separati, il figlio ha il diritto di mantenere e sviluppare un rapporto continuativo ed equilibrato con entrambi e di ricevere cura, educazione, istruzione ed assistenza morale da entrambi (art. 337 ter c.c.).

Il genitore separato che convive con il figlio ha il dovere di non contrastare e di facilitare il rapporto con l’altro genitore: la violazione di tale dovere genitoriale contrasta con i diritti del figlio e può essere sanzionata ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c.

Come nel caso recentemente deciso dal Tribunale di Roma con la sentenza n. 18799 pubblicata l’11 ottobre 2016.

 

Il caso

Con la sentenza citata, il Tribunale di Roma ha censurato il comportamento di una madre, genitore collocatario, che non si era adoperata fattivamente per ristabilire il rapporto tra il figlio ed il padre, ed anzi aveva ostacolato il funzionamento dell’affidamento condiviso con atteggiamenti sminuenti e denigratori della figura paterna.

Di fronte alla condizione di disagio e sofferenza del figlio, accertata nel procedimento anche mediante la sua audizione, i giudici hanno ritenuto di intervenire d’ufficio, senza domanda di parte, irrogando alla signora le sanzioni di cui all’art. 709 ter c.p.c.

La madre è stata, infatti, ritenuta responsabile per non essersi attivata in concreto per riavvicinare il figlio al padre, per non aver tenuto un comportamento propositivo volto al un giusto recupero del rapporto padre-figlio, rapporto necessario per la crescita equilibrata del minore. Ed anzi, la madre aveva contribuito ad alimentare l’atteggiamento oppositivo del figlio nei confronti del padre , continuando a manifestare la sua disapprovazione ed a denigrare l’ex marito.

 

Le sanzioni irrogate: ammonimento e risarcimento dei danni

La donna è stata ammonita ed invitata a rispettare il ruolo genitoriale dell’ex coniuge e ad astenersi da condotte negative e denigratorie.
Non solo: è stata condannata a risarcire al padre del minore i danni, liquidati dal giudice in 30.000,00 euro, importo determinato in via equitativa, tenuto conto delle buone condizioni economiche del danneggiato e della durata nel tempo dell’inadempimento.
Una sanzione pesante, il cui scopo non è soltanto sanzionatorio, m è soprattutto di dissuadere in concreto il ripetersi in futuro delle condotte pregiudizievoli per il figlio.
E sempre con finalità dissuasiva, nel provvedimento in esame si paventa l’applicazione per la madre di sanzioni più gravi, inclusa la revisione delle condizioni dell’affidamento, in caso di reiterazione delle condotte censurate.

 

L’art. 709 ter c.p.c. : misure per il corretto esercizio della responsabilità genitoriale

Introdotto dalla legge sull’affidamento condiviso (legge 54/2006), l’art. 709 ter c.p.c. disciplina la soluzione dei conflitti tra i genitori non più conviventi in ordine alla gestione dei figli, all’esercizio della responsabilità genitoriale ed alle modalità di affidamento.

La norma è nata con lo scopo di favorire l’applicazione in concreto dei provvedimenti giudiziari che regolano i rapporti tra i genitori separati ed i figli, evitando abusi e condotte che possono nuocere alla crescita equilibrata e serena dei figli.

L’art. 709 ter c.p.c. trova applicazione quando vi siano già tra le parti provvedimenti che regolano l’affidamento dei figli e i rapporti con i genitori. Può trattarsi, ad esempio, dell’ordinanza presidenziale della separazione o del divorzio, del decreto di omologa della separazione consensuale, della sentenza di divorzio o del decreto che regola l’esercizio della responsabilità genitoriale sui figli nati da persone non sposate, o ancora degli accordi di separazione, divorzio o modifica delle condizioni di separazione e divorzio raggiunti dai coniugi a seguito di negoziazione assistita.

Per risolvere il contrasto tra i genitori – stabilisce la norma -il giudice adotta i provvedimenti opportuni, ovvero le misure che ritiene più adeguate e tutelanti per i figli minori.

Inoltre, in caso di violazioni gravi delle regole sull’affidamento e sulla responsabilità genitoriale, ed altresì quando il comportamento di uno dei genitori contrasti con l’interesse del figlio o ostacoli il corretto svolgimento dell’affidamento, il giudice può intervenire in modo più deciso, modificando i provvedimenti vigenti e adottando una serie di sanzioni ai danni del genitore che abbia tenuto le condotte violative o pregiudizievoli.

Più specificamente, le misure sanzionatorie stabilite dall’art. 709 ter c.p.c. sono le seguenti:
1) l’ammonimento, cioè l’invito formale a rispettare le regole vigenti;
2) il risarcimento dei danni subiti dal minore stesso a causa delle condotte genitoriali non corrette;
3) il risarcimento dei danni in favore dell’altro genitore;
4) il pagamento di una sanzione pecuniaria da un minimo di 75,00 euro ad un massimo di 5.000,00 euro in favore della Cassa delle ammende.

Oltre alla velenza punitiva, le misure hanno al contempo efficacia dissuasiva, servono ad evitare il ripetersi nel tempo delle condotte.

Sono finalizzate ad indurre i genitori separati a dare effettiva attuazione alla bigenitorialità, ad evitare di coinvolgere i figli nel conflitto tra gli adulti, strumentalizzandoli e trasformandoli in oggetto di contesa e rivalsa nei confronti dell’ex.

 

Fonte: Tribunale di Roma, sentenza n. 18799/2016 dell ‘11.10.2016

Danno da privazione genitoriale: il genitore assente deve risarcire il figlio

Gli obblighi genitoriali, cioè l’insieme dei doveri che gravano sui genitori, non si esauriscono nel mero dovere di mantenimento dei figli, ma comprendono anche l’altrettanto importante dovere di accudimento e di assistenza morale.

Il genitore non può sottrarsi a tali obblighi e, se lo fa, commette un illecito civile, e cioè viola le norme ed è tenuto a risarcire i danni subiti dal figlio in conseguenza del comportamento trascurante.

In termini tecnici, si parla di “danno da privazione genitoriale“, vale a dire delle conseguenze pregiudizievoli sulla vita del figlio determinate dall’assenza di uno dei genitori: la mancanza dell’apporto di uno dei genitori produce, infatti, gravi effetti negativi sulla crescita equilibrata e serena del figlio, poiché lede i diritti inviolabili della persona  tutelati dalla norme della Costituzione, specialmente, dagli articoli 2 e 30, e dalle norme di diritto internazionale recepito nel nostro ordinamento.
Il danno risarcibile rientra, dunque, nella sfera del danno non patrimoniale.

Il tema è stato recentemente affrontato dal Tribunale di Cassino nella sentenza n. 832 del 15.6.2016, con la quale è stata accolta la domanda di risarcimento danni formulata da una madre per conto della figlia minorenne, della quale il padre non si era mai occupato.

Nella vicenda decisa dal tribunale, il rapporto di paternità era stato dichiarato giudizialmente, da una precedente sentenza, e da allora il padre aveva provveduto al mantenimento della figlia, ma non si era mai attivato per instaurare un rapporto affettivo con la bambina, limitandosi ad incontrarla in rarissime occasioni.
Il Tribunale ha accertato che il padre era rimasto sostanzialmente assente dalla vita della figlia e, pur rispettando l’obbligo di mantenimento, non aveva fatto nulla per costituire un normale rapporto genitoriale.

La figura genitoriale paterna – osserva il tribunale – rappresenta un punto di riferimento fondamentale soprattutto nella fase della crescita. L’assenza di un genitore determina un’immancabile ferita nella vita del figlio e dunque incide in negativo sui diritti inviolabili del figlio stesso. Ciò determina in capo al genitore assente l’obbligo di risarcire il figlio.

L’ammontare del risarcimento, stante la natura di danno non patrimoniale del danno sofferto dal figlio, viene determinato dal giudice in via equitativa.

Nel caso in esame, il giudice ha liquidato il danno in 52.000 €, vale a dire 4.000€ all’anno, a decorrere dalla nascita della figlia.

La sentenza affronta anche il tema del mantenimento dei figli, precisando che detto obbligo sorge per il solo fatto della nascita e dunque va adempiuto fin da quel momento, indipendentemente dal tempo in cui interviene il riconoscimento della paternità.
L’obbligo di mantenimento trova la sua giustificazione nello status di genitore, sussiste per il solo fatto di avere messo al mondo il figlio e prescinde da qualsiasi domanda.

Fonte: Tribunale di Cassino sentenza n. 832/2016.

Diritto di visita e pernottamento: il diritto dei figli di respirare l’atmosfera paterna

Una volta veniva chiamato “diritto di visita“, cioè il diritto del genitore separato o divorziato non convivente con i figli (generalmente, il padre) di trascorrere del tempo con i figli minori.
Diritto che é anche un dovere, non mancavano mai di sottolineare i difensori del genitore convivente con il figlio (la madre, nella maggior parte dei casi), evidenziando così che la richiesta di trascorrere tempi con i figli doveva poi essere attuata nei fatti, che non bastava chiedere, ma occorreva poi rispettare il calendario preteso.

Da dieci anni, la terminologia “diritto di visita” non è più presente nel Codice Civile: la legge 54/2006 con cui è stato introdotto l’affidamento condiviso, ha abbandonato la precedente dicitura ed ha posto al centro il figlio, anziché il genitore, affermando il diritto del figlio a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascun genitore e di ricevere cura, educazione, istruzione ed assistenza morale da entrambi.

Il vecchio “diritto di visita” è stato dunque sostituito dalla previsione delle “modalità e dei tempi di permanenza” del figlio presso ciascuno dei genitori (art. 155, ora art. 337 ter c.c.): non si tratta di un mero cambiamento lessicale, ma di un vero e proprio cambiamento di prospettiva, non é più il genitore che ha il diritto di incontrare i figli, ma é il figlio che ha il diritto di trascorrere il suo tempo con entrambi i genitori.

 

Quali sono i tempi “giusti”?

Sui tempi delle visite ai figli non ci sono regole specifiche, ogni situazione va valutata nella sua singolarità, tendendo conto degli impegni delle persone coinvolte (figli e genitori), della distanza tra le abitazioni, della situazione logistica e delle abitudini e dell’assetto preesistente alla separazione.

In calendario standard utilizzato dai tribunali prevede che il figlio stia con genitore non convivente il fine settimana (generalmente dal venerdì alla domenica sera) a settimane alterne e uno o due pomeriggi alla settimana, con o senza pernottamento. Vengono inoltre previsti periodi di tempo più lunghi durante le festività tradizionali (Natale, Capodanno, Pasqua, ecc.) ed i mesi estivi.

Ma queste sono regole generali, modulabili ed adattabili alle situazioni concrete.
La soluzione migliore è quella di cercare un accordo tra i genitori per definire consensualmente il calendario della frequentazione padre-figli. Nessuno più dei diretti interessati conosce la soluzione meglio rispondente alle esigenze della sua famiglia separata.

Se entrambi i genitori sono d’accordo, può essere prevista anche la permanenza dei figli presso ciascuno dei genitori al 50%, per tempi paritari. Si parla, in questo caso, di affidamento alternato.

Da evitare, in ogni caso, l’eccessivo frazionamento dei tempi: un giorno con uno e un giorno con l’altro genitore non va bene, perché eccessivamente destabilizzante per il bambino. Il minore, infatti, deve conservare, per quanto possibile, una continuità di abitudini ed avere certezze e punti di riferimento.

Un calendario di massima va sempre previsto: stabilire regole precise sui giorni e gli orari che il figlio trascorre con ciascuno dei genitori è utile per consentire al bambino ed ai genitori una buona organizzazione del quotidiano e consente di evitare possibili conflitti.

 

Il pernottamento

La questione del pernottamento rappresenta spesso un nodo critico, specie quando si tratta di bambini molto piccoli.
Se c’è l’accordo dei genitori, nessun problema al pernottamento presso il padre anche per figli in tenera età. In mancanza di accordo, i Tribunali tendono a negarlo quando si tratta di bambini di età inferiore a tre-quattro anni, poiché ritenuti ancora in “età materna”.

Il pernottamento ha una importante valenza psico-affettiva: cenare con il padre, parlare, guardare assieme la TV, prepararsi per andare a letto e, la mattina dopo, condividere l’inizio della giornata, la sveglia, la colazione, rappresentano momenti particolarmente significativi per la crescita del figlio, in quanto gli consentono di continuare a condividere con il genitore che è uscito di casa le stesse abitudini che erano presenti prima della separazione.

 

Tener conto delle esigenze dei figli

Sui tempi della frequentazione non ci sono, dunque, regole fisse, ma é importante tenere sempre a mente che il calendario va stabilito tenendo prima di tutto conto delle esigenze del figlio, e del suo diritto a mantenere un rapporto continuativo con entrambi i genitori, anche dopo la loro separazione.

Il dott. Giovanni Bollea, noto neuropsichiatra infantile, strenuo sostenitore dell’importanza della condivisione della responsabilità genitoriale nella separazione, già in epoca precedente alla legge 54/2006 sull’affidamento condiviso, sottolineava che il peggior trauma che può derivare al figlio dalla separazione dei genitori è quello di sentirsi abbandonato da uno dei genitori, di perdere uno degli oggetti d’amore.

E’ fondamentale fare in modo che il figlio non si senta abbandonato dal genitore che, per effetto della separazione, va via di casa. I tempi di permanenza, dunque, andranno calibrati consentendo ai figli di conservare con il genitore che va via, di norma il padre, ampi momenti di condivisione, in modo che il padre possa esercitare a tutti gli effetti la sua funzione genitoriale, anche a livello psico-pedagogico, e che il figlio possa “respirare l’atmosfera paterna“.

Separazione con figli: alcuni consigli pratici

La separazione porta a galla una serie di emozioni negative, quali rabbia, paura, ansia, tristezza, delusione, incertezza. Per non uscirne emotivamente devastati, è importante imparare a gestire correttamente questi sentimenti, prendendosi cura di sé e, quando necessario, chiedendo aiuto ad un esperto che possa fornire un supporto concreto per superare positivamente il momento di difficoltà.

Ciò è ancor più necessario quando ci sono dei figli che contano sul sostegno dei genitori per poter superare il cambiamento che la separazione inevitabilmente comporta.

 

I figli non scelgono la separazione dei genitori

Non ho mai creduto nella teoria del “rimanere assieme per il bene dei figli”: come possono crescere bene figli che vivono ogni giorno il disamore, l’incomunicabilità, il nervosismo, i litigi dei genitori?

Se due persone non si amano più e non vanno più d’accordo, la separazione rappresenta un passaggio inevitabile, doloroso, ma necessario.

Spesso si dimentica, ma va tenuto sempre presente: la scelta di separarsi è dei genitori, non dei figli; i figli subiscono la decisione dei genitori e le sue conseguenze.

Come affrontare la separazione quando ci sono figli?

 

Cosa fare, in concreto?

Nel delicato momento della separazione, i figli hanno più che mai bisogno dell’aiuto e del sostegno dei genitori, di entrambi. Agire secondo buon senso e senza farsi travolgere della emozioni negative è fondamentale.

Ecco alcuni consigli pratici, frutto dell’esperienza professionale maturata in questi anni quale avvocato matrimonialista, oltre che dell’esperienza personale come genitore.

–  Dedicare più tempo possibile ai figli.

In questo particolare momento, i figli hanno bisogno della presenza dei genitori; è importante, dunque, cercare di essere il più presenti possibile, dedicare loro tempo di qualità. I momenti trascorsi assieme devono essere un’occasione per parlare, confrontarsi, chiedere ai figli quali siano le loro emozioni e cercare di capirle ed affrontarle assieme.

Gli psicologi consigliano di incoraggiare al dialogo il bambino esprime il desiderio di parlare delle emozioni che avverte, ma senza forzature; è essenziale ascoltare i figli e rassicurarli sul fatto che mamma e papà per loro ci saranno sempre, anche se non abiteranno più assieme. Alle domande dei figli è bene rispondere sinceramente, le bugie possono creare illusioni ed in tal modo minare il rapporto di fiducia con l’adulto.

– Giocare assieme ai figli.

Molte volte, specialmente quando i figli sono piccoli, lo scambio verbale non è la strada migliore, in quanto non tutti i bambini sono pronti ad esprimere a parole i loro sentimenti: trascorre momenti ludici, giocare e disegnare assieme può essere utile a capire, attraverso la rappresentazione del gioco o i disegni, quali siano le emozioni che attraversano il bambino.

– Ci vuole pazienza.

Mantenere la calma anche quando i bambini dicono qualcosa di sleale o scorretto è fondamentale. Spesso l’atteggiamento prepotente è una forma di reazione e difesa, esprime una difficoltà del bambino a razionalizzare quanto gli sta accadendo. Il bambino deve sentirsi accolto dal genitore sempre, anche quando sbaglia: se dice qualcosa di offensivo o se afferma qualcosa che non è vero, è importante spiegargli il vostro punto di vista, senza arrabbiarsi e soprattutto senza tuttavia denigrare o svilire l’altro genitore.

– L’ex rimane sempre l’altro genitore.

I bambini non devono mai essere messi nelle condizioni di dover fare una scelta tra l’uno o l’altro genitore; devono crescere con la certezza che entrambi sono e rimarranno presenti nella loro vita, sebbene con modalità diverse rispetto a quando la famiglia era unita.

– Conservare le abitudini del bambino.

E’ importante che, anche dopo la separazione dei genitori, il bambino continui a mantenere la rete sociale e di relazione che aveva in precedenza ed a fare le cose che fanno i bambini della sua età: se prima della separazione trascorreva qualche pomeriggio con i nonni, se andava a calcio o in piscina, continuare a farlo anche quando i genitori sono separati gli consente di mantenere delle certezze, dei punti di riferimento utili a superare il cambiamento imposto dalla separazione dei genitori.

– Prendere tempo per sé stessi.

Prendersi cura di sé, andare a concerti, cinema, teatro, uscire con gli amici, dedicarsi allo sport o a qualche hobby è importante, ed anzi fondamentale, per riconquistare fiducia in sé stessi, essere più sereni e in questo modo aiutare meglio i figli a superare il momento della separazione. Se i genitori stanno bene, stanno bene anche i figli;

– Rivolgersi ad esperti.

In caso di difficoltà, è sempre utile rivolgersi a professionisti (psicologi, psicoterapeuti, avvocati) esperti nella gestione delle vicende separative che possono fornire un sostegno ed un supporto competente ed attento.

 

Come avvocato che da anni si occupa di controversie familiari, credo sia soprattutto importante, prima di prendere qualsiasi iniziativa, informarsi sui propri diritti e sui diritti dei figli, in modo da poter assumere decisioni consapevoli e tutelanti per sé e per i figli.

Separarsi non vuol dire fare la guerra all’altro. La separazione è un momento di passaggio, è una fase della vita: se gestita con attenzione, consapevolezza, buon senso e – permettetemi – con l’aiuto dei professionisti giusti, può avvenire senza traumi e nel pieno rispetto dei diritti di tutte le persone coinvolte.