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Per il rilascio del passaporto non serve (più) il consenso dell’altro genitore

Il decreto legge n. 69/2023, entrato in vigore il 14 giugno 2023, ha cambiato le regole per ottenere il passaporto in Italia. In precedenza, in presenza di figli minorenni, per il rilascio e per il rinnovo del passaporto di uno dei genitori era sempre necessario il consenso dell’altro.

Ora non è più così: un genitore che vuole il rilascio o il rinnovo del suo passaporto non ha più bisogno del consenso dell’altro. Resta obbligatorio il consenso di entrambi i genitori o di chi ne ha la responsabilità soltanto per il rilascio del passaporto dei minorenni.

Cosa può fare l’altro genitore se non è d’accordo per il rilascio del passaporto?

Se uno dei genitori intende opporsi al rilascio o al rinnovo del passaporto dell’altro, deve presentare istanza al giudice, indicando le motivazioni a fondamento della domanda.

Il tribunale, nel rispetto del principio di proporzionalità e tenendo conto della normativa interna e internazionale in materia di responsabilità genitoriale, mantenimento e sottrazione internazionale di minori,  emette un divieto (inibitoria) quando vi è rischio reale che il genitore, recandosi all’estero, possa venire meno ai suoi doveri verso i figli. Se la richiesta viene accolta, il giudice stabilisce per quanto tempo rimarrà in vigore l’inibitoria, che comunque non può superare i due anni.

La richiesta dev’ essere presentata al tribunale nel luogo in cui il minore ha la residenza abituale. Se è già in corso una procedura legale tra le stesse persone, la richiesta va presentata al giudice di quella procedura. Se il minore vive all’estero, la richiesta va presentata al tribunale in Italia dove viveva prima o al tribunale nella zona in cui il minore è registrato all’AIRE.

La domanda di inibitoria può essere presentata anche dal Pubblico Ministero.

 

Fonte: Art. 20 del decreto legge n. 69 del 13 giugno 2023.

Assegnazione della casa familiare e genitori in conflitto

Nella decisione sull’assegnazione della casa coniugale nella separazione, il giudice deve tener conto esclusivamente dell’interesse dei figli. Pertanto, non può disporre la co-assegnazione dell’immobile, previa suddivisone in due distinte unità abitative, qualora il conflitto tra i genitori sia particolarmente acceso e la vicinanza abitativa dei medesimi possa recare turbativa alla crescita equilibrata e serena dei figli minori.

La casa familiare può essere assegnata soltanto in presenza di figli

La giurisprudenza ha chiarito che l’assegnazione della casa coniugale è finalizzata esclusivamente alla tutela dei figli minorenni o maggiorenni non economicamente autosufficienti, e non a compensare un eventuale divario tra le posizioni economiche dei coniugi.

Il provvedimento di assegnazione ha lo scopo di proteggere i figli, garantendo loro di conservare una continuità, quando meno sotto il profilo abitativo e delle abitudini, di fronte alla disgregazione del nucleo familiare.

L’assegnazione, dunque, va effettuata in favore del coniuge convivente con i figli. In mancanza di figli minori o di figli maggiorenni non autonomi, il giudice non può assegnare la casa coniugale: l’immobile resterà al coniuge che ne è proprietario; se l’immobile è in comproprietà ai due coniugi, si applicheranno le ordinarie regole della comunione.

Se i genitori sono in conflitto, non si può coassegnare la casa coniugale

In una vicenda oggetto di un recente provvedimento della Corte di Cassazione, il marito in sede di separazione aveva chiesto l’assegnazione di una parte dell’ex casa coniugale, sostenendo che i figli minori avrebbero ottenuto un grande beneficio dalla vicinanza con il padre, al quale erano uniti da un forte legame affettivo, e che gli interventi di divisione della casa erano facili da realizzare e non eccessivamente costosi.

Il Tribunale ha rigettato la domanda, motivando tale decisione con la sussistenza di un’elevata conflittualità tra i coniugi: per i giudici la litigiosità dei coniugi rendeva la coassegnazione contraria all’interesse dei figli, specie in mancanza di un accordo tra le parti circa la facile divisibilità dei vani e considerato che la moglie, nel frattempo, aveva intrapreso una convivenza con un altro uomo.

La sentenza, confermata in appello, non è stata modificata dalla Corte di Cassazione, la quale ha ritenuto inammissibile per ragioni tecniche il ricorso presentato dal marito.

 

Fonte: Cass. Civ. ordinanza 10 novembre 2017, n. 26709.

Genitori in conflitto: interviene il coordinatore genitoriale

Nelle separazioni ad alta conflittualità, il coordinatore genitoriale, un professionista esterno alla famiglia e super partes nominato dal giudice, ha la funzione di proteggere i minori dalle possibili conseguenze negative della litigiosità dei genitori, affiancando e supportando i genitori nell’esercizio della responsabilità genitoriale e dell’affidamento dei figli.

In una recente sentenza relativa ad un caso di separazione caratterizzata da un’elevata conflittualità tra i coniugi, il Tribunale di Mantova ha disposto che i rapporti genitori-figli vengano monitorati da una figura terza rispetto alla famiglia, il cosiddetto coordinatore genitoriale o educatore professionale, un professionista incaricato di mediare il conflitto e fornire supporto concreto ai genitori.

Più esattamente, al coordinatore genitoriale sono stati assegnati i seguenti compiti:
a) monitorare l’andamento della relazione genitori-figli, mediando i rapporti e fornendo indicazioni correttive di eventuali comportamenti disfunzionali dei genitori;
b) aiutare i genitori nelle decisioni relative ai figli, vigilando sull’osservanza del calendario delle visite con il genitore non convivente ed in caso di disaccordo dei genitori, assumendo le decisioni opportune nell’interesse dei figli.
c) Il coordinatore genitoriale è tenuto, poi, a riferire l’esito del suo operato al Giudice Tutelare.

Il caso

La sentenza in oggetto è stata emessa a conclusione di un procedimento di separazione caratterizzato da un’accesa litigiosità tra i coniugi, genitori di due figli minori.
I coniugi avevano formulato entrambi domanda di addebito della separazione (la moglie sostenendo l’infedeltà del marito, il marito rappresentando il distacco affettivo ed atteggiamenti offensivi della moglie) e nel corso del giudizio avevano manifestato un profondo risentimento reciproco.
La conflittualità tra gli adulti si era proiettata anche nei rapporti con i figli: la moglie aveva più volte impedito gli incontri tra i figli ed il padre (genitore non convivente), frapponendo ostacoli alle visite ed impedendo i contatti telefonici, aveva inoltre interrotto indebitamente la frequentazione tra i minori e la famiglia paterna, come accertato dall’indagine dei Servizi Sociali e dalla consulenza tecnica d’ufficio (C.T.U.).
Peraltro, i Servizi Sociali e la C.T.U. avevano verificato, in ordine all’affidamento dei figli, che entrambi i genitori erano in grado di gestire singolarmente i minori e che, pertanto, la modalità di affidamento meglio rispondente all’interesse dei figli era l’affidamento condiviso.

La decisione

A fronte di tale delicata situazione, il Tribunale ha aderito alle conclusioni degli esperti (consulente tecnico e Servizi sociali), disponendo l’affidamento condiviso dei figli ad entrambi i genitori.

La diversa previsione dell’affidamento ad uno solo dei genitori (affidamento esclusivo) richiede, infatti, che risulti dimostrata l’inidoneità educativa o la manifesta carenza dell’altro genitore, cosa non presente nel caso in esame, dato che la consulenza e gli operatori sociali avevano riconosciuto la capacità genitoriale di ciascuno dei coniugi singolarmente.

E’ stato poi previsto l’esercizio separato della responsabilità genitoriale nei tempi in cui i figli sono con ciascuno dei genitori ed è stata disposta la collocazione abitativa dei figli con la madre, dopo aver accertato che i figli avevano instaurato un più solido legame affettivo con essa e che la madre era in grado di offrire maggiore stabilità e sicurezza psicologica.

Le condotte ostruzionistiche della madre, consistite nell’aver ostacolato i rapporti padre-figli, sono state sanzionate con la condanna della signora a risarcire i danni sofferti da quest’ultimo in conseguenza del comportamento ostacolante, in attuazione dell’art. 709 ter c.p.c. L’importo del risarcimento è stato fissato, in via equitativa in 1.000,00 euro.

In una vicenda così conflittuale è stata lungimirante la decisione del Tribunale di non lasciare i genitori da soli a gestire l’affidamento condiviso dopo la separazione: seguendo le indicazioni della C.T.U., i giudici di Mantova hanno previsto l’affiancamento di un coordinatore genitoriale, una figura professionale specializzata, con compiti di supporto, mediazione, risoluzione dei conflitti , oltre che di vigilanza sull’attuazione delle regole dettate nella sentenza e di intervento diretto nell’assunzione delle decisioni relative ai figli in caso di disaccordo dei genitori.

Del suo operato il coordinatore genitoriale dovrà riferire al Giudice Tutelare nel termine assegnato dal Tribunale.

 

Fonte: Tribunale di Mantova, sentenza 5.5.2017 (est. Bernardi)

Assegno di separazione e assegno di divorzio: i presupposti sono diversi

Dopo il clamore mediatico suscitato dalla recentissima sentenza in materia di assegno divorzile, la Cassazione ha chiarito che l’assegno per il coniuge nella separazione e l’assegno divorzile sono sorretti da presupposti diversi.

L’assegno di mantenimento fissato nella separazione, infatti, è finalizzato a consentire al coniuge economicamente più debole di conservare il tenore di vita di cui godeva quando era ancora convivente con l’altro.

 I coniugi separati sono ancora sposati

Nella separazione, infatti, il vincolo del matrimonio non viene meno, ma è soltanto allentato: sono sospesi – rilevano i giudici della Cassazione – soltanto i doveri di natura personale, quali la convivenza, la fedeltà e la collaborazione; al contrario, gli obblighi economici rimangono, assumendo forme diverse in considerazione della nuova situazione di fatto che vede i coniugi vivere separati.

Se durante la convivenza matrimoniale ciascuno dei coniugi provvede al mantenimento della famiglia in proporzione alle sue condizioni economiche, nella separazione coniugale il coniuge più abbiente deve versare all’altro un assegno periodico, proporzionato ai redditi, per contribuire al suo mantenimento.

La solidarietà economica viene meno solo con l’addebito della separazione

Nella separazione, dunque, permane il dovere di contribuire al mantenimento del coniuge meno abbiente.
Questo dovere di solidarietà economica viene meno soltanto in caso di addebito della separazione: se il coniuge economicamente più debole viene riconosciuto responsabile della crisi coniugale, per aver violato i doveri coniugali, perde il diritto all’assegno di mantenimento.

L’assegno di mantenimento va calcolato secondo il tenore di vita

L’obbligo di assistenza materiale tra i coniugi separati si realizza mediante il riconoscimento di un assegno di mantenimento in favore del coniuge meno abbiente e che non è in grado, con i propri redditi, di mantenere un tenore di vita analogo a quello che aveva, assieme all’altro, prima della separazione.

Nel quantificare l’assegno di mantenimento del coniuge separato si considera il tenore di vita consentito dalle risorse economiche di entrambi i coniugi: la prima verifica da fare è volta ad accertare se il coniuge che richiede l’assegno disponga di mezzi economici tali da permettergli o meno di conservare quel tenore di vita.

Per far ciò, il giudice dovrà tenere in considerazione la condizione economica complessiva del richiedente (i redditi, le proprietà, la disponibilità della casa coniugale, ecc.).

Una volta accertato che il coniuge che richiede l’assegno non ha mezzi adeguati a conservare il precedente tenore di vita, si procede alla quantificazione dell’assegno mediante una valutazione comparativa delle condizioni economiche di ciascun coniuge, nonché di particolari elementi quali, ad esempio, la durata della convivenza.

L’assegno di divorzio è diverso

L’assegno di mantenimento in favore del coniuge separato è cosa ben diversa dall’assegno divorzile: i presupposti e la normativa sono distinti e autonomi.

L’elemento essenziale di differenziazione è che con il divorzio il vincolo matrimoniale viene meno e con esso anche i doveri matrimoniali, incluso il vincolo di solidarietà coniugale, come recentemente affermato dalla sentenza n. 11504/2017 della Cassazione.

 

Fonte: sentenza Cassazione civile n. 12196 del 16.5.2017

 

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Adozione: quando l’età non conta

Il Tribunale dei minorenni di Bologna con un provvedimento innovativo ha concesso ad una coppia una deroga ai limiti d’età previsti per l’adozione.
Il dato burocratico dell’età è stato ritenuto secondario rispetto alla possibilità di dare ad un bambino in condizione di abbandono la possibilità di crescere in una famiglia.

La vicenda

Marco e Laura (i nomi sono di fantasia per rispetto della privacy) sono due coniugi italiani, sposati da circa sette anni, Marco ha 65 anni mentre Laura ne ha 51; stante l’impossibilità di avere figli biologici, hanno deciso di “donare” la vita in un modo forse ancora più meraviglioso e, sicuramente, più altruistico: adottando.

L’idoneità all’adozione internazionale

La coppia segue tutti i passaggi necessari: si rivolge al Tribunale per i Minorenni dell’Emilia Romagna e avvia le pratiche per richiedere l’idoneità all’adozione internazionale; durante la prima fase i coniugi vengono sottoposti a vari colloqui con psicologi ed esperti, al fine di valutare le loro capacità genitoriali e personali. Purtroppo, come a volte succede, il percorso subisce una prima interruzione: il T.M. decreta l’inidoneità dei coniugi all’adozione internazionale.

Marco e Laura però non si perdono d’animo e propongono reclamo avverso il provvedimento. La Corte d’Appello di Bologna accoglie il reclamo e riconosce la piena attitudine di Marco e Laura all’adozione internazionale.

I coniugi hanno finalmente la possibilità di realizzare il proprio progetto genitoriale, accogliendo un bambino presso il proprio nucleo.

L’Ente e l’abbinamento con il bambino

A questo punto, infatti, non rimane che rivolgersi ad un Ente accreditato che curi le pratiche dell’abbinamento: quel percorso, cioè, che accosta un bambino straniero in stato di adottabilità con i due futuri nuovi genitori, attraverso una serie di passi che porteranno il minore ad entrare gradualmente nella nuova famiglia adottiva.

La coppia segue tutti i corsi predisposti dall’Ente e nel frattempo vengono presi i contatti con un istituto sudamericano: in pochi mesi si concretizza l’abbinamento e la coppia conosce – tramite fotografie e relazioni – il piccolo Francisco (anche questo nome di fantasia) che, a sua volta, riceve informazioni sulla sua futura famiglia italiana che si sta preparando ad accoglierlo.

L’autorizzazione negata

Resta da ottenere l’autorizzazione da parte della C.A.I. (Commissione per le Adozioni Internazionali) e qui la storia di Marco e Laura affronta un nuovo ostacolo: dalla Commissione, infatti, giunge una notizia “inaspettata”: c’è un problema con l’età di Marco.

Da un controllo sulle età dei genitori e del minore, è risultato che Marco ha 10 anni e 5 mesi più del piccolo Francisco e questo rende inidonea la coppia.

La Legge sull’adozione (legge n. 184/1983), infatti, prevede che tra il figlio minore e i genitori debbano intercorrere più di diciotto anni e meno di quarantacinque anni: tale forbice può essere parametrata anche solo ad uno dei coniugi (se più giovane), purché l’altro non superi di più di dieci anni il limite massimo imposto dalla legge.

Nel caso, poiché Marco ha 65 anni, la coppia avrebbe potuto adottare un bambino dai 10 anni in su, perché in tal modo non si sarebbe oltrepassata la “linea limite” dei 45+10 anni tracciata dalla deroga normativa. Francisco, invece, ha solo 9 anni e mezzo.

Lo sgomento dei coniugi è inevitabile, soprattutto considerati i mesi di attesa e di preparazione.

Il ricorso al Tribunale dei minori

Ma neppure questo nuovo ostacolo ferma Marco e Laura: depositano un nuovo ricorso al Tribunale dei minorenni per chiedere una deroga al limite della differenza d’età, tenendo conto dell’interesse del minore ad essere adottato.

Nel ricorso, i coniugi rappresentano le circostanze specifiche della vicenda: il bambino era di fatto già entrato “in contatto” con i futuri genitori (seppur “solo” attraverso foto e informazioni) ed era stato già“preparato” al suo futuro ingresso in una famiglia che lo avrebbe potuto finalmente crescere serenamente; a questo si aggiungeva poi che il minore appartiene ad una minoranza etnica (afro-colombiana) e tale caratteristica, unita all’età ormai pre-adolescenziale, avrebbe sicuramente compromesso una futura adozione nazionale/internazionale; erano trascorsi già diversi anni dal momento in cui il bambino era stato dichiarato in stato di adottabilità e affidato presso un istituto familiare. Doveva assolutamente considerarsi, infine, come il limite massimo di dieci anni prescritto dalla Legge veniva oltrepassato di soli cinque mesi e questo non poteva certo pregiudicare il benessere di un minore, il quale deve venire sempre posto prima di ogni cosa.

La decisione

L’esito del ricorso non era affatto scontato. I precedenti giurisprudenziali sono pochi ed era il primo caso di questo tipo che il Tribunale per i minori di Bologna si trovava ad affrontare.

Ma tutto si è risolto al meglio: il ricorso è stato accolto in tempi rapidi (due settimane soltanto) e il T.M. ha riconosciuto la deroga per il caso specifico di Marco e Laura, concedendo l’autorizzazione a procedersi con l’adozione di Francisco.

Ciò che il Tribunale ha considerato prioritario è stato salvaguardare l’interesse del minore: per Francisco c’era il concreto rischio di non poter essere più adottato a causa dell’età e degli altri fattori indicati sopra.

Grazie alla sensibilità dei giudici ed alla determinazione di Marco e Laura, Francisco potrà avere un futuro e una famiglia in Italia.

(Avv. Federico Tufano)

Fonte: decreto del T.M. dell’Emilia Romagna dell’11-22 maggio 2017.

Come si calcola l’assegno di mantenimento dei figli?

Una delle questioni da affrontare nella separazione, anche dei conviventi di fatto, è il contributo al mantenimento dei figli.
L’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli è un obbligo di legge inderogabile ed irrinunciabile. Esso è parte integrante della responsabilità genitoriale, ovvero dell’insieme di diritti e doveri che sorgono in capo ai genitori per il solo fatto della procreazione.

Contribuire al mantenimento dei figli significa provvedere non soltanto ai bisogni strettamente alimentari della prole, ma a tutte le necessità di cura ed educazione dei figli, e dunque alle esigenze abitative, scolastiche, sanitarie, sociali, ricreative, sportive, ecc. ovvero a tutto ciò che serve al figlio per crescere conservando, anche nella separazione dei genitori, lo stesso tenore di vita tenuto quando la famiglia era unita.

L’obbligo di mantenimento perdura dalla nascita del figlio fino alla sua piena indipendenza economica, cioè fino a quando il figlio non dispone di redditi propri ed è autonomo economicamente. L’obbligo dunque non viene meno automaticamente quando il figlio diventa maggiorenne, ma perdura anche oltre la maggiore età, fino a che il figlio non è in grado di mantenersi da solo.

Ma come si misura l’obbligo di mantenimento?

Il principio di proporzionalità

Il criterio di riferimento principale per la ripartizione tra i genitori dell’obbligo di mantenimento dei figli è il principio di proporzionalità: ciascuno dei genitori è tenuto a provvedere in proporzione alle sue sostanze, comprensive dei redditi (stipendio), del patrimonio (beni posseduti) ed anche della capacità di lavoro, professionale o casalingo.
Tale principio, affermato dall’art. 316 bis c.c., è ribadito dall’art. 337 ter c.c. che regola l’esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione dei genitori, coniugati e non.

Gli altri criteri per la quantificazione del mantenimento

L’art. 337 ter c.c.  stabilisce che “ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito” .
La norma elenca i parametri di riferimento che il giudice e le parti devono usare nella quantificazione dell’assegno mensile per il mantenimento dei figli, parametri che sono volti – precisa la norma – a realizzare il principio di proporzionalità, e più esattamente:

1) le esigenze attuali del figlio;
2) il tenore di vita goduto dal figlio quando la famiglia era unita;
3) i tempi che il figlio trascorre con ciascun genitore;
4) le risorse economiche dei genitori;
5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura che ciascun genitore svolge.

L’assegnazione della casa familiare

Ulteriore elemento di valutazione economica, ai sensi dell’art. 337 sexies c.c., è costituito dall’assegnazione della casa dove la famiglia ha vissuto fino alla disgregazione del nucleo.

Per legge, in caso di separazione dei genitori la casa familiare viene assegnata al genitore convivente con i figli, e ciò risponde all’esigenza prioritaria di tutelare i figli e garantire loro di conservare l’ambiente domestico e di vita, evitando loro ulteriori traumatici cambiamenti.

Il genitore cui la casa è assegnata ha il diritto di rimanere a viverci con i figli, disponendo dell’abitazione e di tutti i mobili e gli arredi presenti in casa, anche se l’immobile è cointestato all’altro o di proprietà esclusiva dell’altro.

L’assegnazione, ovviamente, incide sull’assetto economico in quanto per il genitore assegnatario può realizzarsi un risparmio di spesa (dato che rimane nella casa a titolo gratuito), mentre l’altro genitore si troverà a dover sostenere spese abitative per prendere in affitto o acquistare di un altro immobile.

Dell’assegnazione della casa coniugale, dunque, si deve tener conto anche nella quantificazione del contributo al mantenimento dei figli.

Mantenimento diretto o assegno?

Generalmente quanto i genitori si separano viene stabilito un assegno mensile che il genitore che non convive con i figli deve versare all’altro genitore per contribuire al mantenimento dei figli.
La previsione dell’assegno, però, non è obbligatoria: in presenza di determinate condizioni, è possibile non prevedere il versamento dell’assegno, stabilendo che ciascuno dei genitori provveda in via diretta al mantenimento del figlio, facendosi carico delle spese che servono al figlio per il tempo in cui lo ha con sè. Si tratta del cosiddetto “mantenimento diretto“.

Questa soluzione richiede l’accordo delle parti e viene utilizzata quando vi siano determinati presupposti: ad esempio, quando i redditi dei genitori sono equivalenti ed il figlio trascorre tempi paritari con la madre ed il padre.

Quanto viene fissato, l’assegno mensile è soggetto a rivalutazione annuale, vale a dire deve essere aggiornato di anno in anno secondo gli indici di adeguamento ISTAT.

Le spese straordinarie

L’assegno periodico copre il mantenimento ordinario del figlio, vale a dire le spese che necessarie per il sostentamento e le altre spese di natura ordinaria, quali alimentazione, abbigliamento, calzature, spese di vitto ed alloggio, ecc.
A queste si aggiungono le spese straordinarie, ovvero quelle spese che sono legate a particolari esigenze di cura ed educazione dei figli e che hanno natura extra ordinaria, nel senso che non sono previamente prevedibili nè quantificabili e riguardano profili primari della crescita, della salute e della formazione del figlio. Queste spese, essendo imprevedibili ed imponderabili, non possono essere incluse nell’assegno mensile, ma vanno conteggiate e rimborsate separatamente.
Le spese straordinarie non sono specificate dalla legge. La giurisprudenza ha elaborato una serie di criteri di riferimento, che sono stati utilizzati per l’elaborazione di Linee guida – Protocolli applicativi in uso nei diversi Tribunali italiani, ed il cui scopo è fornire ai magistrati ed agli avvocati dei criteri uniformi per individuare le spese straordinarie, in modo da ridurre i possibili contenziosi sulla rimborsabilità o meno di alcune spese.

In generale, sono considerate spese straordinarie, tra l’altro, le spese mediche e specialistiche, comprese quelle odontoiatriche e oculistiche (ad esempio: ticket sanitari, prescrizioni terapeutiche, apparecchi correttivi, ecc.), le  spese per la scuola, l’istruzione e la formazione (ad esempio: tasse di iscrizione, dotazione libraria, materiale didattico, gite, attività integrative, ecc.), le spese per lo sport e per le attività ricreative.

Di norma, le spese straordinarie sono poste a carico di ciascun genitore in misura del 50%, ma è possibile anche prevedere che siano a carico di uno dei due in misura maggiore, così come è possibile suddividerle tra i genitori per tipologia di spesa. Ad esempio, può essere stabilito che la madre di faccia carico delle spese scolastiche e sportive e che il padre si faccia carico delle spese mediche, ecc.

L’interesse del figlio

La legge, dunque, non fissa criteri di calcolo specifici ed automatici, ma indica dei parametri valutazione al quale i genitori ed il giudice devono attenersi per ottenere la corretta quantificazione dell’assegno.

La quantificazione tiene conto dell’interesse primario del figlio e del suo diritto di crescere fruendo di risorse economiche adeguate alle proprie esigenze ed agli standard di vita della famiglia in cui è nato.

Sanzioni per il genitore che viola il dovere di favorire il rapporto tra il figlio e l’altro genitore

Anche se i genitori sono separati, il figlio ha il diritto di mantenere e sviluppare un rapporto continuativo ed equilibrato con entrambi e di ricevere cura, educazione, istruzione ed assistenza morale da entrambi (art. 337 ter c.c.).

Il genitore separato che convive con il figlio ha il dovere di non contrastare e di facilitare il rapporto con l’altro genitore: la violazione di tale dovere genitoriale contrasta con i diritti del figlio e può essere sanzionata ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c.

Come nel caso recentemente deciso dal Tribunale di Roma con la sentenza n. 18799 pubblicata l’11 ottobre 2016.

 

Il caso

Con la sentenza citata, il Tribunale di Roma ha censurato il comportamento di una madre, genitore collocatario, che non si era adoperata fattivamente per ristabilire il rapporto tra il figlio ed il padre, ed anzi aveva ostacolato il funzionamento dell’affidamento condiviso con atteggiamenti sminuenti e denigratori della figura paterna.

Di fronte alla condizione di disagio e sofferenza del figlio, accertata nel procedimento anche mediante la sua audizione, i giudici hanno ritenuto di intervenire d’ufficio, senza domanda di parte, irrogando alla signora le sanzioni di cui all’art. 709 ter c.p.c.

La madre è stata, infatti, ritenuta responsabile per non essersi attivata in concreto per riavvicinare il figlio al padre, per non aver tenuto un comportamento propositivo volto al un giusto recupero del rapporto padre-figlio, rapporto necessario per la crescita equilibrata del minore. Ed anzi, la madre aveva contribuito ad alimentare l’atteggiamento oppositivo del figlio nei confronti del padre , continuando a manifestare la sua disapprovazione ed a denigrare l’ex marito.

 

Le sanzioni irrogate: ammonimento e risarcimento dei danni

La donna è stata ammonita ed invitata a rispettare il ruolo genitoriale dell’ex coniuge e ad astenersi da condotte negative e denigratorie.
Non solo: è stata condannata a risarcire al padre del minore i danni, liquidati dal giudice in 30.000,00 euro, importo determinato in via equitativa, tenuto conto delle buone condizioni economiche del danneggiato e della durata nel tempo dell’inadempimento.
Una sanzione pesante, il cui scopo non è soltanto sanzionatorio, m è soprattutto di dissuadere in concreto il ripetersi in futuro delle condotte pregiudizievoli per il figlio.
E sempre con finalità dissuasiva, nel provvedimento in esame si paventa l’applicazione per la madre di sanzioni più gravi, inclusa la revisione delle condizioni dell’affidamento, in caso di reiterazione delle condotte censurate.

 

L’art. 709 ter c.p.c. : misure per il corretto esercizio della responsabilità genitoriale

Introdotto dalla legge sull’affidamento condiviso (legge 54/2006), l’art. 709 ter c.p.c. disciplina la soluzione dei conflitti tra i genitori non più conviventi in ordine alla gestione dei figli, all’esercizio della responsabilità genitoriale ed alle modalità di affidamento.

La norma è nata con lo scopo di favorire l’applicazione in concreto dei provvedimenti giudiziari che regolano i rapporti tra i genitori separati ed i figli, evitando abusi e condotte che possono nuocere alla crescita equilibrata e serena dei figli.

L’art. 709 ter c.p.c. trova applicazione quando vi siano già tra le parti provvedimenti che regolano l’affidamento dei figli e i rapporti con i genitori. Può trattarsi, ad esempio, dell’ordinanza presidenziale della separazione o del divorzio, del decreto di omologa della separazione consensuale, della sentenza di divorzio o del decreto che regola l’esercizio della responsabilità genitoriale sui figli nati da persone non sposate, o ancora degli accordi di separazione, divorzio o modifica delle condizioni di separazione e divorzio raggiunti dai coniugi a seguito di negoziazione assistita.

Per risolvere il contrasto tra i genitori – stabilisce la norma -il giudice adotta i provvedimenti opportuni, ovvero le misure che ritiene più adeguate e tutelanti per i figli minori.

Inoltre, in caso di violazioni gravi delle regole sull’affidamento e sulla responsabilità genitoriale, ed altresì quando il comportamento di uno dei genitori contrasti con l’interesse del figlio o ostacoli il corretto svolgimento dell’affidamento, il giudice può intervenire in modo più deciso, modificando i provvedimenti vigenti e adottando una serie di sanzioni ai danni del genitore che abbia tenuto le condotte violative o pregiudizievoli.

Più specificamente, le misure sanzionatorie stabilite dall’art. 709 ter c.p.c. sono le seguenti:
1) l’ammonimento, cioè l’invito formale a rispettare le regole vigenti;
2) il risarcimento dei danni subiti dal minore stesso a causa delle condotte genitoriali non corrette;
3) il risarcimento dei danni in favore dell’altro genitore;
4) il pagamento di una sanzione pecuniaria da un minimo di 75,00 euro ad un massimo di 5.000,00 euro in favore della Cassa delle ammende.

Oltre alla velenza punitiva, le misure hanno al contempo efficacia dissuasiva, servono ad evitare il ripetersi nel tempo delle condotte.

Sono finalizzate ad indurre i genitori separati a dare effettiva attuazione alla bigenitorialità, ad evitare di coinvolgere i figli nel conflitto tra gli adulti, strumentalizzandoli e trasformandoli in oggetto di contesa e rivalsa nei confronti dell’ex.

 

Fonte: Tribunale di Roma, sentenza n. 18799/2016 dell ‘11.10.2016

“Dopo di noi”: i punti essenziali della nuova legge

E’ entrata in vigore lo scorso 25 giugno la legge 22.6.2016 n. 112 a tutela dei diritti delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare, più conosciuta come Legge sul Dopo di Noi.

L’obiettivo della legge 112/2016 è assicurare adeguata protezione alle persone con disabilità grave che non possono contare sull’aiuto della famiglia, in quanto prive di entrambi i genitori o perché i genitori non sono in grado di farsi carico della loro assistenza.

Le misure previste dal nuovo provvedimento sono finalizzate ad evitare l’istituzionalizzazione e a favorire l’integrazione e la progressiva presa in carico della persona in difficoltà fin da quando i genitori sono ancora in vita, in vista del futuro venir meno del loro supporto.

Chi sono i beneficiari della legge?

Destinatari delle tutele previste dalla legge sono le persone con disabilità grave, non dovuta all’invecchiamento o a patologie senili, che non dispongano di sostegno familiare o in vista del venir meno del sostegno familiare.
Lo stato di disabilità grave viene definito dalla legge con riferimento alla legge n. 104 del 1992 (artt. 3 e 4).

 

Istituito il Fondo per l’assistenza delle persone disabili

Per realizzare gli scopi di cui sopra la legge ha istituito un apposito Fondo, con una dotazione di 90 milioni di euro per l’anno 2016, 38,3 milioni per il 2017 e 56,1 milioni per il 2018.
Le risorse del Fondo saranno destinate, più esattamente, ai seguenti scopi:
– attivare programmi di deistituzionalizzazione e di supporto alla domiciliarità, in abitazioni o gruppi-appartamento che riproducano le condizioni abitative e di relazione della casa familiare, anche mediante l’utilizzo delle nuove tecnologie
– realizzare interventi per la permanenza temporanea in una soluzione abitativa extrafamiliare per fronteggiare situazioni di emergenza, interventi da adottarsi solo nei casi di necessità, e comunque in via del tutto residuale e nel rispetto della volontà della persona disabile e dei genitori e di chi ne tutela gli interessi;
– porre in essere interventi innovativi di residenzialità, quali soluzioni abitative di tipo familiare e di co-housing;
– sviluppare programmi di accrescimento della consapevolezza, di abilitazione e di sviluppo delle competenze con l’obiettivo di favorire il più possibile l’autonomia delle persone disabili.

I requisiti di accesso alle misure di assistenza saranno individuati con decreto del ministero del lavoro e delle politiche sociali, da emanare entro sei mesi.

 

Previste agevolazioni fiscali

La legge introduce una serie di agevolazioni fiscali per le iniziative di tutela delle persone disabili assunte dai familiari, e più esattamente

1- detrazioni fiscali per le assicurazioni rischio morte :
è stata aumentata, a decorrere dal periodo d’imposta 2016, a 750 € la detraibilitá dei premi per assicurazioni sulla vita finalizzate alla tutela delle persone con disabilità grave;

2 – esenzioni da imposte per i trust, i vincoli di destinazione ed i fondi speciali:
è stata introdotta l’esenzione dalle imposte sulla successione e sulla donazione, nonchè dall’imposto di bollo dei beni ed i diritti conferiti in un trust o gravati da vincolo di destinazione (art. 2645 ter c.c.) oppure destinati ai fondi speciali appositamente previsti dall’art. 1 della legge stessa,in favore di persone con disabilità grave.
Le agevolazioni di cui sopra si applicheranno dal 1° gennaio 2017.

Agli atti dispositivi di cui sopra le imposte di registro, ipotecaria e catastale si applicano in misura fissa.

Per fruire del regime agevolato, è necessario rispettare i seguenti requisiti:
1. il trust, il vincolo di destinazione o il fondo speciale dovranno perseguire come finalità esclusiva l’inclusione sociale, la cura e l’assistenza delle persone disabili gravi, in favore delle quali sono istituiti; la finalità dovrà essere espressamente indicata nell’atto istitutivo;
2. il trust, il vincolo di destinazione o il fondo speciale dovranno essere fatti per atto pubblico;
3. nell’atto istitutivo dovranno essere specificamente indicati i soggetti coinvolti ed i loro ruoli, dovranno essere descritte le funzionalità ed i bisogni specifici delle persone disabili in favore dei quali sono istituiti, con indicazione anche delle attività assistenziali necessarie a garantire la cura e la soddisfazione dei bisogni del beneficiario;
4. dovranno, inoltre, essere individuati nel dettaglio gli obblighi del trustee, del fiduciario e del gestore, con riferimento sia al progetto di vita ed al benessere della persona disabile beneficiaria, sia alle modalità di rendicontazione;
5. beneficiari esclusivi dovranno essere persone con disabilità grave;
6. i beni conferiti dovranno essere destinati esclusivamente alla realizzazione di finalità assistenziali;
7. l’atto istitutivo dovrà individuare il soggetto preposto al controllo delle obbligazioni previste e tale soggetto dovrà essere individuabile per tutta la durata del trust, del vincolo di destinazione o del fondo speciale;
8. la durata del trust, del vincolo di destinazione o del fondo speciale dovrà essere stabilita nella data della morte della persona con disabilità grave beneficiaria della misura e dovrà essere inoltre stabilita la destinazione del patrimonio residuo.

Nel caso in cui il beneficiario deceda prima di coloro che hanno istituito in suo favore il trust, o il vincolo di destinazione o il fondo speciale, il trasferimento dei beni e dei diritti in favore di coloro che ne avevano disposto beneficerà del medesimo regime agevolato.

La legge n. 112/2016 stabilisce, inoltre, che i Comuni possano applicare aliquote ridotte, franchigie o esenzioni relativamente all’I.M.U. in relazione agli immobili o altri diritti reali conferiti nel trust o destinati ad un fondo speciale.

3 – agevolazioni fiscali per le erogazioni liberali:
le erogazioni liberali, le donazioni e gli altri atti a titolo gratuito effettuati da privati nei confronti di un trust o di un fondo speciale sono deducibili del 20% dal reddito complessivo, fino ad un massimo di 100.000,00 €. La misura si applica già dal corrente periodo di imposta (2016).

Il provvedimento, approvato dalla Camera all’inizio del mese di giugno, è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 146 del 24.6.2016.

Fonte: Legge 22 giugno 2016, n. 112 “Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilita’ grave prive del sostegno familiare”. Consulta la legge

I contratti di convivenza: cosa sono e come funzionano

Tra le novità introdotte dalla legge 76/2016 sulle unioni civili e le convivenze di fatto (legge Cirinnà), che entrerà in vigore il prossimo 5 giugno, vi è la disciplina normativa di contratti di convivenza, vale a dire dei contratti con i quali i conviventi di fatto possono regolare gli aspetti economici della convivenza.

Già prima della riforma, i contratti di convivenza erano ammessi nell’ordinamento, come contratti atipici, la cui validità era riconosciuta dall’interpretazione giurisprudenziale e dalla dottrina più avanzata. Si trattava, tuttavia, di uno strumento assai poco conosciuto ed utilizzato.

Con la nuova legge, i contratti di convivenza hanno una specifica disciplina normativa: sono infatti previsti i requisiti di forma e sostanza necessari per la validità dell’accordo. Ne esaminiamo di seguito i profili essenziali.

1. Chi può stipulare i contratti di convivenza?
I contratti di convivenza possono essere stipulati dai “conviventi di fatto“, ovvero da
due persone etero o omosessuali unite stabilmente da legami di coppia affettivi e di reciproca assistenza morale e materiale,
non legate da parentele, affinità, adozione, matrimonio o unione civile,
– che risiedano nello stesso immobile e
– che abbiano registrato la convivenza nell’anagrafe del comune di residenza. 

2. E’ necessaria la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata
Per la validità del contratto di convivenza è necessaria la forma scritta: i contratti di convivenza vanno redatti con atto pubblico o scrittura privata autenticata da un notaio o da un avvocato.
Per poter essere efficace nei confronti dei terzi, il contratto dev’essere iscritto nei registri anagrafici nei quali è registrata la convivenza. La legge, pertanto, stabilisce che il contratto debba essere trasmesso entro 10 giorni dalla sua sottoscrizione al comune di residenza dei conviventi, a cura del professionista (notaio o avvocato) che ha autenticato il contratto.

3. Il contenuto del contratto di convivenza
Il contratto di convivenza ha ad oggetto i rapporti patrimoniali relativi alla vita comune. Non possono essere oggetto di pattuizione contrattuale i rapporti personali tra i conviventi ed i rapporti con i figli.
Il contratto di convivenza può contenere
– l’indicazione della residenza comune,
– le modalità di contribuzione alle necessità della vita comune, in relazione alla capacità economica e lavorativa dei partner,
– la scelta del regime patrimoniale della comunione dei beni prevista per il matrimonio o di altro regime patrimoniale.

Non è espressamente prevista, ma non neppure è esclusa, la possibilità per i conviventi di regolamentare le conseguenze della cessazione dell’unione, in passato riconosciuta valida dalla giurisprudenza.

4. Il contratto di convivenza può essere modificato?
Il contratto di convivenza può essere modificato in qualsiasi momento, sempre mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata.

5. Come si scioglie il vincolo contrattuale?
Il contratto di convivenza si scioglie:
consensualmente, mediante la sottoscrizione da parte di entrambi i conviventi di un atto scritto, autenticato dal notaio o dall’avvocato con cui invalidano il precedente accordo;
per recesso di una sola delle parti: ciascuna parte può rivolgersi ad un notaio o ad un avvocato dichiarando di volersi liberare dai vincoli pattizi. In questo caso, è prevista una tutela per il convivente che abiti nella casa familiare di proprietà dell’altro: più esattamente, la legge 76/2016 stabilisce che la dichiarazione di recesso dovrà contenere il termine non inferiore a 90 giorni per il rilascio dell’abitazione da parte del convivente;
– nel caso in cui uno dei partner contragga matrimonio o unione civile;
– per morte di una delle parti.

6. E’ obbligatorio stipulare i contratti di convivenza?
Regolamentare i rapporti mediante il contratto di convivenza rappresenta una facoltà, un’opportunità per i conviventi, i quali ben possono non stipulare alcun contratto. In questo caso, si applicano le norme sulla convivenza introdotte dalla Legge 76/2016 e, per quanto attiene gli acquisti comune, le norme generali sulla proprietà e sulla comunione dei beni.

Le convivenze di fatto in 10 punti

La  legge n. 76/2016 del 20.5.2016 (legge Cirinnà), che entrerà in vigore il 5 giugno 2016, regola due diversi istituti: le unioni civili tra persone dello stesso sesso e le convivenze di fatto tra persone etero o omosessuali.
L’attenzione dei media e dei commentatori si è focalizzata finora sulle unioni civili, ma ad un’attenta lettura della nuova legge non può sfuggire come in realtà la disciplina più rivoluzionaria sia quella delle coppie di fatto. Ne esaminiamo di seguito i profili essenziali.

1. Cos’è la convivenza di fatto?

Sono considerati “conviventi di fatto” due persone unite stabilmente da legami di coppia affettivi e di reciproca assistenza morale e materiale, non legate da parentele, affinità, adozione, matrimonio o unione civile.
Per assumere rilievo giuridico, la convivenza non richiede una dichiarazione formale innanzi all’ufficiale di stato civile. Per l’accertamento della convivenza, secondo la legge, si fa riferimento alla certificazione dello stato di famiglia anagrafico. Non è escluso, tuttavia, che la prova del rapporto di convivenza possa essere fornita anche in altri modi.

2. Rapporti patrimoniali e personali tra i conviventi

Con la recente riforma sono stati estesi ai conviventi una serie di diritti e doveri reciproci tipici del matrimonio, più esattamente i conviventi sono tenuti a rispettare
– l’obbligo di coabitazione,
– l’obbligo di reciproca assistenza morale ed economica,
– il dovere di contribuire alle esigenze della famiglia.

Il rapporto di convivenza determina inoltre il sorgere di alcuni diritti reciproci in capo ai conviventi:
– il diritto al risarcimento del danno in caso di decesso del partner o di lesioni ai danni del medesimo ( in questo caso la legge ha trasferito in precetto l’elaborazione giurisprudenziale in materia di responsabilità civile),
– i diritti spettanti al coniuge in materia di assistenza penitenziaria ,
– il diritto al subentro nel rapporto di locazione;
– il diritto di visita e di accesso alle informazioni sanitarie personali, in caso di malattia o di ricovero del convivente.

E’ infine previsto, in caso di cessazione della convivenza, il diritto agli alimenti in favore l’ex convivente che versi in stato di bisogno.

3. Rapporti con i figli

Le differenze di trattamento della convivenza rispetto al matrimonio e all’unione civile attengono il rapporto tra i conviventi, non il rapporto coi figli: grazie alla legge 219/2012, infatti, la posizione giuridica dei figli nati nel matrimonio e fuori da esso è del tutto equivalente.

4. Designazione preventiva del convivente in caso di malattia incapacitante o di morte

La legge 76/2016 è particolarmente innovativa sotto questo profilo: il convivente potrà designare l’altro convivente come suo rappresentante, con poteri pieni o limitati, per le decisioni sanitarie in caso di malattia che comporti incapacità di intendere e di volere.
Allo stesso modo, potrà designarlo come rappresentante in caso di morte, per le decisioni che riguardino la donazione degli organi, il trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie.
Per la designazione è sufficiente una dichiarazione scritta autografa, senza necessità di autentica da parte di pubblico ufficiale. In caso di impossibilità di redigerla, è necessaria la presenza di un testimone.
Nulla di simile è previsto nell’ordinamento per il matrimonio nè per l’unione civile.

5. Amministrazione di sostegno, interdizione e curatela del convivente

A mente della legge 76/2016, il convivente potrà essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno del partner  e ha diritto ad essere informato su eventuali procedimenti relativi alla limitazione della capacità giuridica del compagno.

6. Interruzione della convivenza

La legge 76/2016 non regola le modalità di interruzione della convivenza di fatto.
L’unica norma che riguarda espressamente la cessazione della convivenza è il comma 65 dell’art. 1 relativo al diritto agli alimenti per l’ex convivente.

7. Diritto agli alimenti in favore dell’ex convivente

La legge 76/2016 stabilisce che, in caso di cessazione della convivenza di fatto, l’ex convivente ha diritto di ricevere dall’altro gli alimenti.§
Al riguardo, è bene sottolineare che la prestazione alimentare non va confusa con il contributo al mantenimento: l’obbligo di mantenimento dopo la cessazione della convivenza, originariamente presente nel disegno di legge, é stato espunto dalla versione finale approvata dal Parlamento.
Gli alimenti sono dovuti soltanto se l’ex convivente versa in stato di bisogno e non dispone dei mezzi per sopravvivere: una situazione di difficoltà economica estrema, ben diversa dal mantenimento che é finalizzato a consentire la conservazione del tenore di vita goduto durante il rapporto di convivenza.
L’obbligazione alimentare va disposta dal giudice, su richiesta dell’avente diritto.
In forza della legge 76/2016, il convivente é stato inserito tra gli obbligati alla corresponsione della prestazione alimentare, dopo il coniuge, gli ascendenti ed i discendenti e prima dei fratelli e delle sorelle.

8. I contratti di convivenza

La legge 76/2016 disciplina i contratti di convivenza, ovvero gli accordi con i quali le parti possono regolare gli aspetti economici della loro convivenza, già in precedenza ammessi nell’ordinamento per interpretazione giurisprudenziale.
Sono specificamente disciplinati i requisiti di forma, validità e sostanza della pattuizioni economiche tra i conviventi.

9. Impresa familiare tra conviventi

In materia di impresa familiare, la legge 76/2016 ha introdotto il nuovo articolo 230 ter nel Codice Civile che garantisce al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente una partecipazione agli utili dell’impresa, ai beni acquistati ed agli incrementi.
La partecipazione è proporzionale al lavoro prestato e non spetta quando il rapporto di collaborazione sia ufficializzato in forma societaria o di rapporto di lavoro subordinato.

10. Tutela del convivente in ambito successorio

La legge 76/2016 non prevede diritti successori particolari per il convivente, ma solo un diritto di abitazione: in caso di morte del proprietario della residenza comune, il partner potrà continuare ad abitare la casa per un determinato periodo di tempo, ed in particolare:
– per due anni, in caso di convivenze di durata inferiore al bienno;
– per un periodo corrispondente alla durata della convivenza fino ad un massimo di cinque anni, nel caso in cui la convivenza sia durata più di due anni;
– per un periodo non inferiore a tre anni, indipendentemente dalla durata della convivenza, se coabitino con figli minorenni o disabili nati dall’unione. Inspiegabilmente, non è prevista dalla legge alcuna tutela quando vi siano figli maggiorenni non economicamente autosufficienti.
Il diritto di abitazione viene  meno quando il convivente cessi volontariamente di abitare nella casa comune e in caso di matrimonio, unione civile o nuova convivenza di fatto.

Fonte: Legge 20.5.2016 n. 76.