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Parto anonimo: il figlio ha diritto a conoscere le proprie origini

La Cassazione si è pronunciata a Sezioni Unite su una questione particolarmente delicata che vede contrapposto il diritto del figlio abbandonato alla nascita a conoscere le proprie origini ed il diritto della madre a rimanere nell’anonimato.
Con la sentenza n. 1946 pubblicata il 25 gennaio scorso, i giudici della Cassazione hanno stabilito che se il figlio manifesta il desiderio di conoscere le proprie origini, il giudice deve interpellare la madre, per verificare se intenda ribadire o meno la volontà di rimanere anonima manifestata al momento della nascita.
La madre dovrà essere sentita attraverso un procedimento che garantisca la massima riservatezza, secondo le prassi già in uso in alcuni tribunali italiani. Il diritto del figlio di accedere alle informazioni sulla propria origine e sull’identità dei genitori biologici non può essere sacrificato aprioristicamente soltanto perchè la madre al momento del parto ha dichiarato di voler rimanere anonima: non si può, infatti, dare per scontato la madre, a distanza di tempo, intenda conservare l’originaria scelta dell’anonimato.
Soltanto le caso in cui la madre confermi la volontà di rimanere anonima, il diritto del figlio di conoscerla verrà compresso. In caso contrario, il figlio potrà ricevere le informazioni sull’identità della madre.
Si realizza in questo modo un giusto bilanciamento tra il diritto alle origini del figlio ed il diritto all’oblio della madre.

Il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini

La legge 184 del 1983 in materia di adozioni, consente alla persona adottata di poter accedere alle informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei genitori biologici mediante un particolare procedimento.
La domanda può essere presentata dall’adottato dopo il raggiungimento dei 25 anni d’età (a partire dai 18 anni se vi sono gravi motivi di salute fisica o psichica). Giudice competente è il tribunale per i minorenni del luogo di residenza del richiedente.
Nel procedimento, il tribunale per i minorenni verifica, mediante l’ascolto del diretto interessato e ai altre persone, secondo opportunità, ed eventualmente mediante indagine sociale le possibili conseguenze sull’equilibrio psico-fisico del richiedente. Una volta accertato che l’accesso alle notizie sull’origine e sui genitori biologici non reca turbativa all’equilibrio psico-fisico del richiedente, il tribunale per i minorenni autorizza l’accesso alle notizie richieste.
La legge stabilisce, però, che l’accesso alle informazioni non è consentito nei confronti della madre che abbia scelto l’anonimato, con apposita dichiarazione resa alla nascita (art. 28, ottavo comma, legge 184/83).

L’incostituzionalità della norma

Sulla norma citata si è pronunciata nel 2013 la Corte Costituzionale (sentenza n. 278/2013) dichiarandone l’incostituzionalità nella parte in cui escludeva in maniera irreversibile la possibilità del figlio di accedere alle informazioni sulla madre.
La sentenza della Corte Costituzionale è giunta dopo la condanna inflitta all’Italia dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel caso Godelli (caso Godelli contro Italia sent. CEDU 25.9.2012): la Corte di Strasburgo aveva giudicato la normativa italiana contraria all’art. 8 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo per il mancato bilanciamento dei due contrapposti interessi – quello del figlio di conoscere le origini e quello della madre di rimanere anonima – , in quanto vietando al figlio di avere informazioni sulla propria origine in caso di parto anonimo veniva privilegiato il diritto materno all’oblio.

Il vuoto normativo e le prassi diversificate nei tribunali

La dichiarazione di incostituzionalità della norma avrebbe dovuto essere colmata dal legislatore, che tuttavia non è ancora intervenuto: il progetto di legge è fermo in Commissione Giustizia alla Camera.
E così, nei diversi tribunali per i minorenni erano state attuate prassi difformi: alcuni ammettevano che, alla richiesta del figlio di conoscere l’identità della madre, la madre che aveva chiesto l’anonimato al momento del parto potesse essere interpellata dal giudice, per verificare che la volontà di non essere nominata fosse ancora attuale; altri tribunali, seguendo una interpretazione più formalistica, negavano questa possibilità, poiché non espressamente prevista dalla legge.

La decisione della Cassazione a Sezioni Unite

Nel contesto sopra delineato è intervenuta la Cassazione a Sezioni Unite. La recente sentenza fa chiarezza ed uniforma l’interpretazione: il diritto della madre all’oblio e quello del figlio a conoscere le proprie origini vanno adeguatamente contemperati.
Il figlio ha diritto di conoscere le proprie origini e il suo diritto non può essere sacrificato e compresso per il fatto che la madre, al momento del parto, ha dichiarato di rimanere anonima.
Il giudice deve interpellare la madre e verificare l’attuale volontà della medesima: non può infatti essere escluso a propri che la madre, a distanza di tempo, desideri revocare la scelta iniziale dell’anonimato. La madre va ascoltata con modalità adeguate ad assicurare la massima riservatezza.
Il figlio non potrà accedere alle proprie origini nel caso in cui la madre confermi di voler rimanere anonima: il diritto del figlio trova un limite invalicabile nella conferma della volontà dell’anonimato da parte della madre.

Fonte: Cass. civ. Sez. un. sentenza n. 1946 del 25.1.2017

Abbandono del tetto coniugale e addebito della separazione

Se il coniuge lascia la casa coniugale rischia l’addebito della separazione, a meno che non dimostri che l’uscita di casa è dovuta a giusta causa.

La convivenza è, infatti, un obbligo per le persone sposate, sancito dall’art. 143 del Codice civile. La violazione di tale obbligo, così come quella degli altri obblighi coniugali (fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia), costituisce una violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e, in sede di separazione personale, può essere contestata dall’altro coniuge e fondare l’addebito della separazione.

Con una recente pronuncia, la Corte di Cassazione ha ribadito che, quando la richiesta di addebito della separazione è motivata dall’abbandono del tetto coniugale, il coniuge uscito di casa può evitare l’addebito della separazione se prova la sussistenza di una giusta causa.

La “giusta causa” può consistere in un comportamento negativo dell’altro coniuge oppure in un accordo tra i due coniugi per dare vita, anche temporaneamente, ad una separazione di fatto.

Cosa significa “addebito della separazione”

L’addebito consiste, in estrema sintesi, nell’attribuzione della responsabilità della separazione al coniuge che ha violato i doveri matrimoniali: si sostiene, cioè, che la separazione è stata causata dal comportamento di uno dei due.

Conseguenze dell’addebito sono, in estrema sintesi, tre:

1 – il coniuge cui viene addebitata la separazione perde definitivamente il diritto all’assegno di mantenimento (se ve ne sono i presupposti)

2 – sotto il profilo successorio, la pronuncia di addebito anticipa gli effetti del divorzio: il coniuge cui viene addebitata la separazione non è più erede dell’altro (mentre l’altro mantiene i diritti successori)

3 – generalmente, poi, il coniuge cui viene addebitata la separazione viene condannato al rimborso delle spese legali della separazione all’altro.

La pronuncia dell’addebito può essere chiesta soltanto in sede di separazione personale (non nel divorzio, né nella modifica delle condizioni di separazione) e, ovviamente, esclusivamente nel procedimento di separazione giudiziale (non nella separazione consensuale).

Come si ottiene l’addebito della separazione

La giurisprudenza della Corte di Cassazione è consolidata sul punto: per la pronuncia di addebito nella separazione, è necessaria non solo l’esistenza di una violazione degli obblighi tra coniugi nascenti dal matrimonio, ai sensi dell’art. 143 c.c., ma pure quella di uno stretto rapporto di causalità tra tale violazione e l’elemento della intollerabilità della convivenza (si vedano, tra le altre, Cass. n. 9074/2011 e 2059/2012).

Ciò significa che per dimostrare che la separazione è addebitabile all’altro coniuge occorre anzitutto dimostrare che questi ha tenuto comportamenti contrari ai doveri coniugali (ad esempio: ha condotto una relazione extraconiugale, oppure ha cessato di provvedere al mantenimento della famiglia, ecc.).

Ed inoltre, è necessario dimostrare che i comportamenti contrastanti con i doveri coniugali sono stati la causa della separazione, poichè hanno reso intollerabile la prosecuzione della convivenza familiare.

Dimostrare, ad esempio, che il coniuge ha commesso adulterio, e dunque ha violato il dovere di fedeltà coniugale, non è sufficiente; occorre anche dimostrare che l’adulterio è stata la causa della separazione: se le condotte adulterine sono state tollerate dall’altro coniuge ed ugualmente se l’adulterio è stato commesso quando il matrimonio era già in crisi per altre ragioni, la pronuncia di addebito potrebbe essere negata.

Allontanamento dalla casa coniugale e “giusta causa”

Con la recente ordinanza n. 25966 del 2016, la Corte di Cassazione ha ribadito che l’abbandono del tetto coniugale costituisce elemento da solo sufficiente a rendere impossibile la prosecuzione della convivenza. E dunque il coniuge che intende chiedere l’addebito della separazione è esonerato dal dimostrare che l’uscita di casa è stata la causa della separazione.

Il coniuge che si è allontanato, però, ha la possibilità di evitare l’addebito della separazione, dimostrando che l’allontanamento è dovuto a “giusta causa”, che può consistere, ad esempio, in un comportamento negativo dell’altro coniuge oppure in un accordo tra i due coniugi per dare vita, anche temporaneamente, ad una separazione di fatto in vista della successiva ufficializzazione della separazione.

Fonte: ordinanza Corte di Cassazione n. 15 dicembre 2016, n. 25966 (est. Dogliotti)

Come si calcola l’assegno di mantenimento dei figli?

Una delle questioni da affrontare nella separazione, anche dei conviventi di fatto, è il contributo al mantenimento dei figli.
L’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli è un obbligo di legge inderogabile ed irrinunciabile. Esso è parte integrante della responsabilità genitoriale, ovvero dell’insieme di diritti e doveri che sorgono in capo ai genitori per il solo fatto della procreazione.

Contribuire al mantenimento dei figli significa provvedere non soltanto ai bisogni strettamente alimentari della prole, ma a tutte le necessità di cura ed educazione dei figli, e dunque alle esigenze abitative, scolastiche, sanitarie, sociali, ricreative, sportive, ecc. ovvero a tutto ciò che serve al figlio per crescere conservando, anche nella separazione dei genitori, lo stesso tenore di vita tenuto quando la famiglia era unita.

L’obbligo di mantenimento perdura dalla nascita del figlio fino alla sua piena indipendenza economica, cioè fino a quando il figlio non dispone di redditi propri ed è autonomo economicamente. L’obbligo dunque non viene meno automaticamente quando il figlio diventa maggiorenne, ma perdura anche oltre la maggiore età, fino a che il figlio non è in grado di mantenersi da solo.

Ma come si misura l’obbligo di mantenimento?

Il principio di proporzionalità

Il criterio di riferimento principale per la ripartizione tra i genitori dell’obbligo di mantenimento dei figli è il principio di proporzionalità: ciascuno dei genitori è tenuto a provvedere in proporzione alle sue sostanze, comprensive dei redditi (stipendio), del patrimonio (beni posseduti) ed anche della capacità di lavoro, professionale o casalingo.
Tale principio, affermato dall’art. 316 bis c.c., è ribadito dall’art. 337 ter c.c. che regola l’esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione dei genitori, coniugati e non.

Gli altri criteri per la quantificazione del mantenimento

L’art. 337 ter c.c.  stabilisce che “ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito” .
La norma elenca i parametri di riferimento che il giudice e le parti devono usare nella quantificazione dell’assegno mensile per il mantenimento dei figli, parametri che sono volti – precisa la norma – a realizzare il principio di proporzionalità, e più esattamente:

1) le esigenze attuali del figlio;
2) il tenore di vita goduto dal figlio quando la famiglia era unita;
3) i tempi che il figlio trascorre con ciascun genitore;
4) le risorse economiche dei genitori;
5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura che ciascun genitore svolge.

L’assegnazione della casa familiare

Ulteriore elemento di valutazione economica, ai sensi dell’art. 337 sexies c.c., è costituito dall’assegnazione della casa dove la famiglia ha vissuto fino alla disgregazione del nucleo.

Per legge, in caso di separazione dei genitori la casa familiare viene assegnata al genitore convivente con i figli, e ciò risponde all’esigenza prioritaria di tutelare i figli e garantire loro di conservare l’ambiente domestico e di vita, evitando loro ulteriori traumatici cambiamenti.

Il genitore cui la casa è assegnata ha il diritto di rimanere a viverci con i figli, disponendo dell’abitazione e di tutti i mobili e gli arredi presenti in casa, anche se l’immobile è cointestato all’altro o di proprietà esclusiva dell’altro.

L’assegnazione, ovviamente, incide sull’assetto economico in quanto per il genitore assegnatario può realizzarsi un risparmio di spesa (dato che rimane nella casa a titolo gratuito), mentre l’altro genitore si troverà a dover sostenere spese abitative per prendere in affitto o acquistare di un altro immobile.

Dell’assegnazione della casa coniugale, dunque, si deve tener conto anche nella quantificazione del contributo al mantenimento dei figli.

Mantenimento diretto o assegno?

Generalmente quanto i genitori si separano viene stabilito un assegno mensile che il genitore che non convive con i figli deve versare all’altro genitore per contribuire al mantenimento dei figli.
La previsione dell’assegno, però, non è obbligatoria: in presenza di determinate condizioni, è possibile non prevedere il versamento dell’assegno, stabilendo che ciascuno dei genitori provveda in via diretta al mantenimento del figlio, facendosi carico delle spese che servono al figlio per il tempo in cui lo ha con sè. Si tratta del cosiddetto “mantenimento diretto“.

Questa soluzione richiede l’accordo delle parti e viene utilizzata quando vi siano determinati presupposti: ad esempio, quando i redditi dei genitori sono equivalenti ed il figlio trascorre tempi paritari con la madre ed il padre.

Quanto viene fissato, l’assegno mensile è soggetto a rivalutazione annuale, vale a dire deve essere aggiornato di anno in anno secondo gli indici di adeguamento ISTAT.

Le spese straordinarie

L’assegno periodico copre il mantenimento ordinario del figlio, vale a dire le spese che necessarie per il sostentamento e le altre spese di natura ordinaria, quali alimentazione, abbigliamento, calzature, spese di vitto ed alloggio, ecc.
A queste si aggiungono le spese straordinarie, ovvero quelle spese che sono legate a particolari esigenze di cura ed educazione dei figli e che hanno natura extra ordinaria, nel senso che non sono previamente prevedibili nè quantificabili e riguardano profili primari della crescita, della salute e della formazione del figlio. Queste spese, essendo imprevedibili ed imponderabili, non possono essere incluse nell’assegno mensile, ma vanno conteggiate e rimborsate separatamente.
Le spese straordinarie non sono specificate dalla legge. La giurisprudenza ha elaborato una serie di criteri di riferimento, che sono stati utilizzati per l’elaborazione di Linee guida – Protocolli applicativi in uso nei diversi Tribunali italiani, ed il cui scopo è fornire ai magistrati ed agli avvocati dei criteri uniformi per individuare le spese straordinarie, in modo da ridurre i possibili contenziosi sulla rimborsabilità o meno di alcune spese.

In generale, sono considerate spese straordinarie, tra l’altro, le spese mediche e specialistiche, comprese quelle odontoiatriche e oculistiche (ad esempio: ticket sanitari, prescrizioni terapeutiche, apparecchi correttivi, ecc.), le  spese per la scuola, l’istruzione e la formazione (ad esempio: tasse di iscrizione, dotazione libraria, materiale didattico, gite, attività integrative, ecc.), le spese per lo sport e per le attività ricreative.

Di norma, le spese straordinarie sono poste a carico di ciascun genitore in misura del 50%, ma è possibile anche prevedere che siano a carico di uno dei due in misura maggiore, così come è possibile suddividerle tra i genitori per tipologia di spesa. Ad esempio, può essere stabilito che la madre di faccia carico delle spese scolastiche e sportive e che il padre si faccia carico delle spese mediche, ecc.

L’interesse del figlio

La legge, dunque, non fissa criteri di calcolo specifici ed automatici, ma indica dei parametri valutazione al quale i genitori ed il giudice devono attenersi per ottenere la corretta quantificazione dell’assegno.

La quantificazione tiene conto dell’interesse primario del figlio e del suo diritto di crescere fruendo di risorse economiche adeguate alle proprie esigenze ed agli standard di vita della famiglia in cui è nato.

Danno da privazione genitoriale: il genitore assente deve risarcire il figlio

Gli obblighi genitoriali, cioè l’insieme dei doveri che gravano sui genitori, non si esauriscono nel mero dovere di mantenimento dei figli, ma comprendono anche l’altrettanto importante dovere di accudimento e di assistenza morale.

Il genitore non può sottrarsi a tali obblighi e, se lo fa, commette un illecito civile, e cioè viola le norme ed è tenuto a risarcire i danni subiti dal figlio in conseguenza del comportamento trascurante.

In termini tecnici, si parla di “danno da privazione genitoriale“, vale a dire delle conseguenze pregiudizievoli sulla vita del figlio determinate dall’assenza di uno dei genitori: la mancanza dell’apporto di uno dei genitori produce, infatti, gravi effetti negativi sulla crescita equilibrata e serena del figlio, poiché lede i diritti inviolabili della persona  tutelati dalla norme della Costituzione, specialmente, dagli articoli 2 e 30, e dalle norme di diritto internazionale recepito nel nostro ordinamento.
Il danno risarcibile rientra, dunque, nella sfera del danno non patrimoniale.

Il tema è stato recentemente affrontato dal Tribunale di Cassino nella sentenza n. 832 del 15.6.2016, con la quale è stata accolta la domanda di risarcimento danni formulata da una madre per conto della figlia minorenne, della quale il padre non si era mai occupato.

Nella vicenda decisa dal tribunale, il rapporto di paternità era stato dichiarato giudizialmente, da una precedente sentenza, e da allora il padre aveva provveduto al mantenimento della figlia, ma non si era mai attivato per instaurare un rapporto affettivo con la bambina, limitandosi ad incontrarla in rarissime occasioni.
Il Tribunale ha accertato che il padre era rimasto sostanzialmente assente dalla vita della figlia e, pur rispettando l’obbligo di mantenimento, non aveva fatto nulla per costituire un normale rapporto genitoriale.

La figura genitoriale paterna – osserva il tribunale – rappresenta un punto di riferimento fondamentale soprattutto nella fase della crescita. L’assenza di un genitore determina un’immancabile ferita nella vita del figlio e dunque incide in negativo sui diritti inviolabili del figlio stesso. Ciò determina in capo al genitore assente l’obbligo di risarcire il figlio.

L’ammontare del risarcimento, stante la natura di danno non patrimoniale del danno sofferto dal figlio, viene determinato dal giudice in via equitativa.

Nel caso in esame, il giudice ha liquidato il danno in 52.000 €, vale a dire 4.000€ all’anno, a decorrere dalla nascita della figlia.

La sentenza affronta anche il tema del mantenimento dei figli, precisando che detto obbligo sorge per il solo fatto della nascita e dunque va adempiuto fin da quel momento, indipendentemente dal tempo in cui interviene il riconoscimento della paternità.
L’obbligo di mantenimento trova la sua giustificazione nello status di genitore, sussiste per il solo fatto di avere messo al mondo il figlio e prescinde da qualsiasi domanda.

Fonte: Tribunale di Cassino sentenza n. 832/2016.

Gli accordi prematrimoniali in Italia: a che punto siamo?

Il clamore suscitato dal divorzio tra Brad Pitt e Angelina Jolie (il divorzio del secolo, senza dubbio) ha portato all’attenzione dei media la questione degli accordi prematrimoniali (prenuptial agreements), ovvero degli accordi con cui i futuri coniugi, già prima delle nozze, possono disciplinare gli effetti della possibile successiva crisi matrimoniale, specialmente per quanto attiene le questioni patrimoniali ed economiche.

L’istituto dei patti prematrimoniali, di origine anglosassone, è diffuso anche in alcuni vicini paesi europei, quali Francia e Germania.

Il nostro ordinamento, per ora, non prevede la possibilità di regolamentare in via preventiva le possibili conseguenze della crisi coniugale.

A fine 2014 è stata depositata alla Camera una proposta di legge, la n. 2669/2014, a firma degli onorevoli Morani e D’Alessandro.

Il progetto di legge mira ad introdurre nell’ordinamento, modificando alcune norme del Codice civile, la possibilità di stipulare convenzioni matrimonialiin ogni tempo“, e dunque sia prima del matrimonio (accordi prematrimoniali), che durante il matrimonio.

Le convenzioni matrimoniali dovranno riguardare soltanto le questioni economiche, quali l’assegno di mantenimento, la proprietà e l’uso dei beni comuni, il trasferimento di beni da un coniuge all’altro, il subentro nelle quote societarie, ecc.

Non potranno avere ad oggetto gli aspetti personali del rapporto tra i coniugi, né i rapporti con i figli. Dunque, non potranno essere inserite clausole quali, ad esempio, il divieto di iniziare una convivenza con un’altra persona o di mantenersi in uno stato di fedeltà post-matrimoniale. Simili clausole sono nulle, poiché violano la libertà personale dell’ex coniuge e, dunque, contrastano con norme imperative, cioè inderogabili, del nostro ordinamento.

La proposta di legge stabilisce che le convenzioni matrimoniali per essere valide debbano essere fatte in forma di atto pubblico, davanti al notaio, o mediante convenzione di negoziazione assistita dagli avvocati (come da D.M. 132/2014).

La convenzione potrà essere modificata in ogni tempo, e dunque anche nel corso del matrimonio, purchè la crisi familiare non sia già manifestata in modo definitivo mediante il deposito del ricorso per separazione.

Proseguendo nel solco dei più recenti interventi legislativi in materia di famiglia, il disegno di legge intende favorire ed ampliare sempre di più l’autonomia negoziale dei coniugi, allo scopo di ridurre la conflittualità della separazione e deflazionare il contenzioso.

Al momento, però, l’iter legislativo relativo al progetto di legge in esame è fermo e non è prevista la sua prossima discussione né in aula, né in commissione giustizia.

Ad oggi, dunque, non è possibile regolamentare in via preventiva le conseguenze della separazione o del divorzio. Il nostro ordinamento, infatti, non disciplina questa possibilità, mentre la giurisprudenza, nonostante alcune aperture, si è mostrata finora restia a riconoscere validità agli accordi privati con cui i coniugi assumono impegni economici in vista della futura separazione.

 

Fonte: Progetto di legge della Camera dei Deputati n. 2669/2014

All’ex coniuge che convive non spetta l’assegno di divorzio

Il matrimonio crea un vincolo di solidarietà tra i coniugi che, per legge, permane anche dopo lo scioglimento del rapporto coniugale mediante il divorzio e fonda il diritto del partner meno abbiente a ricevere dall’altro un contributo economico, l’assegno divorzile, appunto.
Presupposto indefettibile per il riconoscimento dell’assegno divorzile è che vi sia una disparità economica tra gli ex coniugi.
Inoltre, è necessario che il richiedente dimostri di non avere mezzi adeguati per mantenere il tenore di vita avuto durante il matrimonio e di non avere la possibilità, per ragioni obiettive, di procurarseli.
Tuttavia, vi sono delle ipotesi in cui, anche in presenza di questi presupposti, l’assegno post-matrimoniale non viene riconosciuto: una è quella in cui l’ex coniuge abbia instaurato una convivenza di fatto con un’altra persona.

Ecco, al riguardo, un caso che è stato recentemente affrontato dallo studio innanzi al Tribunale di Bologna  e deciso con la sentenza n. 671/2016.

La vicenda

Nel procedimento di divorzio, la moglie, già titolare di un assegno di mantenimento stabilito nella separazione, ha chiesto il riconoscimento di un assegno divorzile, tra l’altro, di importo più elevato di quello fissato nella separazione, sostenendo che le sue condizioni economiche erano nel tempo peggiorate.
Il marito si è opposto, rilevando che la moglie aveva in corso da anni uno stabile rapporto di convivenza di fatto con altro uomo.
A dimostrazione della convivenza sono stati depositati in giudizio i certificati anagrafici storici dello stato di famiglia della moglie, da cui risultava la compresenza stabile e continuativa nel tempo della moglie e del compagno nella medesima famiglia anagrafica.

La decisione

Il Tribunale di Bologna ha rigettato la domanda della moglie, ritenendo che il rapporto di convivenza di fatto faccia venir meno il diritto all’assegno di divorzio, poiché scioglie definitivamente ogni legame con la precedente convivenza matrimoniale.
La decisione è in linea con l’orientamento uniforme della Corte di Cassazione sul tema: se il coniuge divorziato forma una nuova famiglia, anche di fatto, si rescinde ogni connessione con il tenore ed il modello di vita che avevano caratterizzato il precedente matrimonio e ciò fa venir meno ogni presupposto per il riconoscimento dell’assegno di divorzio.
Ed anche nel caso in cui la famiglia di fatto, successivamente, venga meno, il diritto all’assegno è comunque perduto, in quanto – sottolinea la Cassazione nella sentenza 6855/2015 (richiamata anche nella pronuncia in esame) – “la formazione di una famiglia di fatto è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, e dunque comporta la piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà post-matrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo”.
Se l’ex coniuge convive, dunque, non ha diritto all’assegno di divorzio.

Come dimostrare il rapporto di convivenza?

Nel giudizio in esame è stato fondamentale riuscire a dimostrare la sussistenza del rapporto di convivenza, e questo è stato possibile mediante il deposito della certificazione anagrafica storica dello stato di famiglia.
Al riguardo, il Tribunale ha sottolineato che la denuncia dello stato di famiglia fatta all’autorità comunale, come ogni altra dichiarazione resa a terzi, estranei al processo, non ha valore confessorio, ma di semplice presunzione superabile con ogni mezzo, e dunque anche mediante testimoni. Le testimonianze raccolte nel procedimento, però, non hanno smentito le risultanze documentali, mentre la tesi avversaria (la moglie si è difesa sostenendo che si trattava di mera coabitazione, dovuta ad un rapporto di amicizia ed alla disponibilità dell’uomo ad accoglierla in casa propria in cambio di collaborazione domestica), non ha trovato riscontro.

Fonte: sentenza Trib. Bologna n. 671/16 del 15.3.2016

Stepchild Adoption: per la Cassazione è sì

Prima pronuncia della Corte di Cassazione in merito ad un caso di adozione del figlio biologico del partner in una coppia omosessuale (cd. stepchild adoption), questione sulla quale manca, come ho già evidenziato in un precedente articolo del blog, una disciplina normativa.
Ecco, sintesi, la vicenda giunta al vaglio dei giudici delle leggi: una coppia di donne, legate da una relazione affettiva molto forte e dal progetto, condiviso, di costruire una famiglia, decidono concordemente di mettere al mondo un figlio. A tale scopo, una delle due ricorre alla fecondazione assistita all’estero. Nasce così una bimba, figlia biologica di una delle due partner, che vive con entrambe in un contesto familiare e di relazioni affettive, sociali e scolastiche analogo quello di tutte le bambine della sua età. La compagna della madre (cd. madre sociale) si rivolge al tribunale chiedendo il riconoscimento giuridico del rapporto genitoriale già di fatto in essere mediante l’adozione della minore ai sensi dell’art. 44, lett. d) della legge 184/83 (adozione in casi speciali).
Il Tribunale per i minorenni, prima, e la Corte d’Appello, poi, accolgono la domanda, avendo verificato – dopo approfondite indagini – che ciò risponde all’interesse della bambina, dato il profondo legame sussistente e la relazione genitoriale a tutti gli effetti presente anche con la madre sociale.
La decisione della Corte d’Appello viene impugnata dal Procuratore della Repubblica che contesta due profili: da un lato, la mancata nomina di un curatore speciale a tutela degli interessi della minore della cui adozione si discute, dall’altro, l’insussistenza dello stato di abbandono della minore che escluderebbe, in sè, la possibilità di poterla dichiarare adottabile.
La Suprema Corte ha rigettato entrambi i motivi di ricorso della Procura, ritenendo non obbligatoria la nomina di un curatore speciale del minore per l’adozione in casi particolari.
Quanto allo stato di abbandono – specifica la Cassazione – solo l’adozione legittimante richiede come presupposto indefettibile lo stato di abbandono del minore; per l’adozione in casi speciali, quale quella richiesta dalla madre sociale, è sufficiente che venga constatata l’impossibilità dell’affidamento preadottivo, e dunque anche la mera impossibilità giuridica, presupposto presente nel caso in esame.
Insomma, i motivi contestati dalla Procura, relativi essenzialmente alla regolarità formale della procedura, sono stati ritenuti infondati, con conseguente conferma della pronuncia di adozione della minore.

L’adozione del figlio della partner nella coppia same-sex è dunque possibile, anche se in forma di adozione speciale, non legittimante, e non come adozione piena. Per le differenze tra i due tipi di adozione, vi invito a leggere la pagina del sito dedicata alle adozioni.

Fonte: Cassazione civile sentenza n. 12962 del 22.6.2016

Casa coniugale in comodato: in caso di separazione, va assegnata?

In tempo di crisi economica, accade sempre più spesso che i giovani sposi vadano ad abitare in un immobile di proprietà dei genitori o dei parenti di uno dei due, concesso in comodato senza termine di durata. A quel punto, l’immobile diventa sede della vita familiare e, se i coniugi si separano, per il proprietario della casa può essere difficile rientrare in possesso del bene, specie se dall’unione sono nati figli.

Al riguardo, la Cassazione in diverse pronunce – e da ultimo nella sentenza n. 24618/15 – ha chiarito che quando la casa familiare é costituita da immobile concesso in comodato senza limiti di durata a favore del nucleo familiare, in caso di separazione personale dei coniugi, l’interesse dei figli a conservare l’ambiente domestico e di vita prevale sull’interesse del proprietario dell’immobile (comodante) a rientrare nella disponibilità del bene. L’abitazione, pertanto, va assegnata al genitore convivente con i figli, indipendentemente da chi ne sia proprietario.

Il diritto di proprietà va, dunque, sacrificato a vantaggio del diritto dei figli a mantenere, anche dopo la separazione dei genitori, il consueto ambiente di vita. Del resto, secondo la normativa in materia di contratto di comodato (art. 1803 e segg. Codice civile), se un bene è stato dato in comodato e le parti non hanno fissato un termine finale per la restituzione del bene, la scadenza del contratto si desume dall’uso per il quale il bene è stato concesso in comodato: ne consegue che, quando una casa è stata data in comodato, ad esempio, al figlio, perchè vi viva con la famiglia, la famiglia potrà continuare a risiedervi anche se il figlio e la moglie si separano.

Particolarmente interessante sul tema è una recente decisione del Tribunale di Aosta, con cui è stato chiarito che la destinazione dell’immobile ad abitazione familiare va puntualmente dimostrata.

Il provvedimento, pronunciato in sede presidenziale nell’ambito di un giudizio di separazione, riguardava una coppia con un figlio minorenne, affidato in via condivisa e collocato presso la madre. Nonostante la previsione della collocazione abitativa con la madre, il giudice non ha accolto la domanda della medesima di assegnazione della residenza familiare (immobile di proprietà dei genitori del marito e concesso in comodato da questi, che poi ne avevano chiesto la restituzione) dichiarando il non luogo a provvedere sul punto.

Secondo il tribunale, in caso di comodato senza termine finale, la volontà di assoggettare il bene a vincoli d’uso particolarmente gravosi, quali la destinazione a residenza familiare, non può essere presunta, ma va di volta in volta accertata; ne consegue che,in mancanza di prova, dev’essere adottata la soluzione più favorevole per il comodante. L’immobile, pertanto, non può essere assegnato e va restituito al proprietario.

Fonte: Trib. Aosta ord. 13.1.2016 (est. Colazingari)

Le convivenze di fatto in 10 punti

La  legge n. 76/2016 del 20.5.2016 (legge Cirinnà), che entrerà in vigore il 5 giugno 2016, regola due diversi istituti: le unioni civili tra persone dello stesso sesso e le convivenze di fatto tra persone etero o omosessuali.
L’attenzione dei media e dei commentatori si è focalizzata finora sulle unioni civili, ma ad un’attenta lettura della nuova legge non può sfuggire come in realtà la disciplina più rivoluzionaria sia quella delle coppie di fatto. Ne esaminiamo di seguito i profili essenziali.

1. Cos’è la convivenza di fatto?

Sono considerati “conviventi di fatto” due persone unite stabilmente da legami di coppia affettivi e di reciproca assistenza morale e materiale, non legate da parentele, affinità, adozione, matrimonio o unione civile.
Per assumere rilievo giuridico, la convivenza non richiede una dichiarazione formale innanzi all’ufficiale di stato civile. Per l’accertamento della convivenza, secondo la legge, si fa riferimento alla certificazione dello stato di famiglia anagrafico. Non è escluso, tuttavia, che la prova del rapporto di convivenza possa essere fornita anche in altri modi.

2. Rapporti patrimoniali e personali tra i conviventi

Con la recente riforma sono stati estesi ai conviventi una serie di diritti e doveri reciproci tipici del matrimonio, più esattamente i conviventi sono tenuti a rispettare
– l’obbligo di coabitazione,
– l’obbligo di reciproca assistenza morale ed economica,
– il dovere di contribuire alle esigenze della famiglia.

Il rapporto di convivenza determina inoltre il sorgere di alcuni diritti reciproci in capo ai conviventi:
– il diritto al risarcimento del danno in caso di decesso del partner o di lesioni ai danni del medesimo ( in questo caso la legge ha trasferito in precetto l’elaborazione giurisprudenziale in materia di responsabilità civile),
– i diritti spettanti al coniuge in materia di assistenza penitenziaria ,
– il diritto al subentro nel rapporto di locazione;
– il diritto di visita e di accesso alle informazioni sanitarie personali, in caso di malattia o di ricovero del convivente.

E’ infine previsto, in caso di cessazione della convivenza, il diritto agli alimenti in favore l’ex convivente che versi in stato di bisogno.

3. Rapporti con i figli

Le differenze di trattamento della convivenza rispetto al matrimonio e all’unione civile attengono il rapporto tra i conviventi, non il rapporto coi figli: grazie alla legge 219/2012, infatti, la posizione giuridica dei figli nati nel matrimonio e fuori da esso è del tutto equivalente.

4. Designazione preventiva del convivente in caso di malattia incapacitante o di morte

La legge 76/2016 è particolarmente innovativa sotto questo profilo: il convivente potrà designare l’altro convivente come suo rappresentante, con poteri pieni o limitati, per le decisioni sanitarie in caso di malattia che comporti incapacità di intendere e di volere.
Allo stesso modo, potrà designarlo come rappresentante in caso di morte, per le decisioni che riguardino la donazione degli organi, il trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie.
Per la designazione è sufficiente una dichiarazione scritta autografa, senza necessità di autentica da parte di pubblico ufficiale. In caso di impossibilità di redigerla, è necessaria la presenza di un testimone.
Nulla di simile è previsto nell’ordinamento per il matrimonio nè per l’unione civile.

5. Amministrazione di sostegno, interdizione e curatela del convivente

A mente della legge 76/2016, il convivente potrà essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno del partner  e ha diritto ad essere informato su eventuali procedimenti relativi alla limitazione della capacità giuridica del compagno.

6. Interruzione della convivenza

La legge 76/2016 non regola le modalità di interruzione della convivenza di fatto.
L’unica norma che riguarda espressamente la cessazione della convivenza è il comma 65 dell’art. 1 relativo al diritto agli alimenti per l’ex convivente.

7. Diritto agli alimenti in favore dell’ex convivente

La legge 76/2016 stabilisce che, in caso di cessazione della convivenza di fatto, l’ex convivente ha diritto di ricevere dall’altro gli alimenti.§
Al riguardo, è bene sottolineare che la prestazione alimentare non va confusa con il contributo al mantenimento: l’obbligo di mantenimento dopo la cessazione della convivenza, originariamente presente nel disegno di legge, é stato espunto dalla versione finale approvata dal Parlamento.
Gli alimenti sono dovuti soltanto se l’ex convivente versa in stato di bisogno e non dispone dei mezzi per sopravvivere: una situazione di difficoltà economica estrema, ben diversa dal mantenimento che é finalizzato a consentire la conservazione del tenore di vita goduto durante il rapporto di convivenza.
L’obbligazione alimentare va disposta dal giudice, su richiesta dell’avente diritto.
In forza della legge 76/2016, il convivente é stato inserito tra gli obbligati alla corresponsione della prestazione alimentare, dopo il coniuge, gli ascendenti ed i discendenti e prima dei fratelli e delle sorelle.

8. I contratti di convivenza

La legge 76/2016 disciplina i contratti di convivenza, ovvero gli accordi con i quali le parti possono regolare gli aspetti economici della loro convivenza, già in precedenza ammessi nell’ordinamento per interpretazione giurisprudenziale.
Sono specificamente disciplinati i requisiti di forma, validità e sostanza della pattuizioni economiche tra i conviventi.

9. Impresa familiare tra conviventi

In materia di impresa familiare, la legge 76/2016 ha introdotto il nuovo articolo 230 ter nel Codice Civile che garantisce al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente una partecipazione agli utili dell’impresa, ai beni acquistati ed agli incrementi.
La partecipazione è proporzionale al lavoro prestato e non spetta quando il rapporto di collaborazione sia ufficializzato in forma societaria o di rapporto di lavoro subordinato.

10. Tutela del convivente in ambito successorio

La legge 76/2016 non prevede diritti successori particolari per il convivente, ma solo un diritto di abitazione: in caso di morte del proprietario della residenza comune, il partner potrà continuare ad abitare la casa per un determinato periodo di tempo, ed in particolare:
– per due anni, in caso di convivenze di durata inferiore al bienno;
– per un periodo corrispondente alla durata della convivenza fino ad un massimo di cinque anni, nel caso in cui la convivenza sia durata più di due anni;
– per un periodo non inferiore a tre anni, indipendentemente dalla durata della convivenza, se coabitino con figli minorenni o disabili nati dall’unione. Inspiegabilmente, non è prevista dalla legge alcuna tutela quando vi siano figli maggiorenni non economicamente autosufficienti.
Il diritto di abitazione viene  meno quando il convivente cessi volontariamente di abitare nella casa comune e in caso di matrimonio, unione civile o nuova convivenza di fatto.

Fonte: Legge 20.5.2016 n. 76.

Quando il figlio va a vivere con l’altro genitore, l’importo dell’assegno va rivisto

Se il figlio cambia la propria residenza prevalente, lasciando l’abitazione di un genitore per andare a vivere con l’altro, il genitore non più convivente non è tenuto a versare all’altro genitore un assegno per il mantenimento del figlio di importo equivalente a quello che riceveva allo stesso scopo prima del cambiamento abitativo.
L’ammontare dell’assegno va ricalcolato, tenendo conto delle attuali diverse condizioni economiche dei genitori, alla luce dell’art. 337 ter, quarto comma, del Codice Civile, in base al quale i genitori provvedono al mantenimento dei figli in proporzione al proprio reddito.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione in un’ordinanza pubblicata lo scorso 27 aprile: la vicenda giunta al vaglio dei giudici di legittimità riguardava un provvedimento con cui la Corte d’Appello di Messina, nell’ambito di un procedimento per modifica delle condizioni di divorzio, dato atto che uno dei figli si era trasferito a vivere dalla madre al padre, aveva deciso che la madre corrispondesse al padre il medesimo importo dell’assegno mensile con cui il padre stesso era stato fino ad allora onerato (€ 400,00 mensili).
La decisione di secondo grado aveva lasciato insoddisfatti entrambi gli ex coniugi: il marito, che ambiva ad un assegno più alto, aveva presentato ricorso in Cassazione sostenendo che non erano stati adeguatamente valutati i redditi della moglie e che non erano state considerate le maggiori esigenze economiche del figlio conseguenti alla sua crescita.
Dal canto suo, la moglie lamentava l’eccessiva onerosità dell’importo posto a suo carico, calcolato, a suo dire, senza tener conto le sue attuali condizioni economiche, che avrebbero giustificato l’esclusione di ogni contributo per i figli.
In buona sostanza, entrambi gli ex coniugi evidenziavano, sebbene per ragioni opposte, un errore di diritto ed una carenza istruttoria relativamente alla valutazione delle loro condizioni economiche attuali. La Corte di Cassazione ha accolto le istanze delle parti, evidenziando che il cambiamento abitativo dei figli impone una rivisitazione dell’assetto economico.
Per quanto riguarda, invece, la questione delle maggiori esigenze economiche dei figli conseguenti alla crescita, nella pronuncia in esame la Suprema Corte pare prendere le distanze dal precedente orientamento interpretativo secondo cui l’aumento delle necessità, essendo connaturato alla crescita non richiede specifica dimostrazione: ha, infatti, precisato che “ai fini di un eventuale aumento dell’importo, si dovrà necessariamente effettuare una valutazione concreta delle esigenze dei figli stessi (ciò ovviamente sempre sulla base delle esigenze economiche dei genitori)”.

Fonte: Corte di Cassazione, Sez. I, ordinanza 8151/2016 del 27.4.2016