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Assegno di mantenimento e pagamento del mutuo

La Cassazione penale è tornata di recente ad affrontare il tema della mancata corresponsione del contributo al mantenimento dei figli da parte del genitore obbligato.
Decidendo in un caso nel quale l’imputato era stato condannato, tra l’altro, ex art. 12 sexies L. 898/70 per essersi sottratto all’obbligo di corresponsione dell’assegno mensile a favore dei figli minori, la Suprema Corte ha ritenuto infondato il motivo di impugnazione proposto dai difensori,i quali avevano evidenziato come il mancato versamento fosse conseguente ad un pregresso accordo tra i genitori e con il quale l’imputato si impegnava a pagare per intero i ratei del mutuo contratto per l’acquisto di un immobile conferito in un fondo patrimoniale, provvedendo così anche alla quota di competenza dell’ex coniuge.
La Cassazione ha chiarito che l‘obbligo di versare l’assegno di mantenimento è inderogabile ed indisponibile e, come tale, non può essere sostituito con prestazioni di altra natura. Oltretutto, nella vicenda specifica, il pagamento delle rate del mutuo era avvenuto in un periodo precedente a quello in cui era stato omesso il versamento dell’assegno.

Fonte: Cass. pen. sent. n. 10944 del 15.3.2016

Se i genitori non sono d’accordo sulla scelta della scuola

In un procedimento di separazione personale, i coniugi non riescono a decidere assieme se iscrivere i figli alla scuola pubblica o ad una scuola privata: un genitore sostiene che i bambini dovrebbero continuare a frequentare l’istituto paritario cui erano già iscritti prima della separazione, l’altro si oppone, rappresentando di non essere più in condizione di far fronte alle elevate spese della scuola privata. La decisione viene rimessa al  giudice della separazione, che opta per la scuola pubblica.

Il ragionamento seguito dal Tribunale di Milano, nella recente sentenza n. 3521 del 18.3.2016, prende le mosse dalla constatazione che la separazione determina un impoverimento dei membri della famiglia, al momento che si passa da un’unica economia a due economie domestiche distinte, con conseguente incremento delle spese, molte delle quali (casa, acquisto di alimenti, ecc.) necessariamente si sdoppiano a  causa della separazione.

Di tale dato il giudice deve tenere conto, trattandosi di un elemento di fatto che incide, in concreto, sul tenore di vita dei componenti della famiglia, tenore di vita che, per ragioni oggettive, non può essere dopo la separazione equivalente a quello che aveva il nucleo prima della frattura. E, dunque, quand’anche in precedenza i figli avessero frequentato scuole private di pregio e di ottimo livello, questa possibilità può anche venire meno quando i genitori si separano e non sono più dello stesso parere sulla scelta iniziale.

In questo caso – sancisce il Tribunale di Milano – la preferenza va data alla scuola pubblica, quando non vi siano controindicazioni per i minori: e ciò poichè la scuola pubblica è ritenuta idonea dall’ordinamento allo sviluppo culturale di qualsiasi minore residente sul territorio ed inoltre rappresenta una scelta “neutra“, che non rischia di orientare il minore verso determinate scelte educative o di orientamento culturale cui potrebbe essere indirizzato dalla scuola privata.

L’opzione in favore dell’istruzione pubblica è, dunque, da privilegiare, a meno che non vi siano delle situazioni particolari (specialmente se riconducibili a difficoltà di apprendimento, fragilità di inserimento con i coetanei, esigenze di coltivare gli studi e la formazione in sintonia con la dotazione culturale o l’estrazione nazionale dei genitori, ecc.), che rendano oggettiva l’esigenza del minore di frequentare la scuola privata.

Fonte: Tribunale di Milano, sentenza n. 3521 del 18.3.2016 (est. Buffone)

 

Quando l’ex non versa il mantenimento, paga lo Stato?

Il punto di domanda è d’obbligo. Con la Legge di Stabilità 2016 è stata disposta la costituzione, in via sperimentale, di un Fondo di Solidarietà a tutela del coniuge in stato di bisogno in caso di mancato versamento dell’assegno di mantenimento da parte dell’altro coniuge.

Ad oggi l’accesso al Fondo non è praticabile, in quanto non sono ancora stati emanati decreti ministeriali di attuazione della norma, nonostante sia ampiamente decorso il termine ( 31 gennaio 2016) fissato nella Legge per la loro adozione.

Per ora, dunque, possiamo soltanto anticipare come funzionerà, sulla base di quanto previsto nella Legge di Stabilità.

Potrà accedere al Fondo il coniuge separato

a) titolare di un assegno di mantenimento che non venga versato dall’altro coniuge, e

b) che si trovi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al mantenimento proprio e dei figli conviventi minorenni o maggiorenni portatori di handicap grave.

L’avente diritto dovrà depositare presso il Tribunale di residenza una specifica domanda per ottenere l’anticipazione da parte dello Stato delle somme non percepite.

E’ presumibile – lo chiariranno meglio i decreti attuativi – che alla domanda debba essere allagata la documentazione attestante la sussistenza del diritto (verbale di separazione consensuale e decreto di omologa, sentenza, accordo di negoziazione assistita), la prova dell’inadempimento (quale una lettera di messa in mora o un atto di precetto) e la dimostrazione  dello stato di bisogno e dell’impossibilità di provvedere al proprio mantenimento ed a quello dei figli (dichiarazioni fiscali, modelli ISEE, ecc.).

Il Tribunale, entro 30 giorni, dovrà pronunciarsi sulla domanda, emettendo un decreto di accoglimento, qualora sussistano i requisiti,  o di rigetto, nel caso in cui non ravvisi la sussistenza dei presupposti per l’accesso al Fondo. Il decreto di rigetto è per legge non impugnabile.

Il decreto di accoglimento verrà trasmesso al  Ministero della Giustizia ai fini della corresponsione delle somme richieste. Il Ministero potrà successivamente rivalersi sul coniuge inadempiente per il recupero degli importi erogati.

Il nuovo istituto risponde all’esigenza di fronteggiare in modo concreto le difficoltà economiche che, sempre più frequentemente, conseguono alla separazione personale.

La formulazione della norma presenta, tuttavia, alcuni profili critici sui quali è opportuno soffermarsi.

Anzitutto, non è previsto l’accesso al Fondo di Solidarietà per il coniuge divorziato: questa esclusione, di fatto, crea una ingiustificata ed illegittima disparità di trattamento tra separati e divorziati. Ed ugualmente discriminatoria, considerato che presupposto per l’accesso al Fondo è la convivenza del coniuge separato con i figli minori o maggiorenni portatori di handicap grave,  è l’assenza di tutela per i figli nati da unioni more uxorio.

Ed inoltre, la norma di presta il fianco a possibili abusi e frodi, non potendosi escludere che qualche coniuge si accordi per ottenere una sorta di sussidio, con l’impossibilità per lo Stato di recuperare le somme anticipate se il coniuge obbligato è nullatenente.
Il necessario passaggio in Tribunale, poi, contrasta nettamente con le ultime tendenze del legislatore orientato alla deflazione del contenzioso.

Insomma, l’idea è buona, ma il risultato – come purtroppo spesso accade quando manca un approccio sistematico alla risoluzione di una questione – non è ancora soddisfacente.

Fonte: Legge n. 208 del 28.12.2015, artt. 414 -416.

Impugnazione del testamento per incapacità naturale: la prova può essere data con qualsiasi mezzo

L’impugnazione del testamento per incapacità naturale è fattispecie ben diversa dall’impugnazione per falso: la prima presuppone un accertamento della condizione totale incapacità di intendere e di volere dell’autore del testamento nel momento in cui lo ha redatto, la seconda si sostanzia nella contestazione della provenienza del testamento dal de cuius.
Con la prima si chiede l’annullamento del testamento in quanto redatto da persona non in grado di autodeterminarsi, con la seconda si afferma che il testamento non è valido poichè non è stato redatto di pugno o non è stato sottoscritto o datato dal testatore.
Sul tema è di recente intervenuta la Corte di Cassazione, pronunciandosi su un caso di annullamento del testamento per incapacità di intendere e di volere ove era stato contestato, tra l’altro, il mancato esperimento di una perizia calligrafica sulla scheda testamentaria.
La Suprema Corte ha, dapprima, ribadito l’orientamento delle Sezioni Unite (sent. n. 12307/15 del 15.6.2015) secondo cui la contestazione della autenticità del testamento non richiede la querela di falso, ma più semplicemente la proposizione di domanda di accertamento negativo della provenienza della scrittura, con conseguente alleggerimento dell’onere probatorio a carico dell’attore.
Quindi, la Suprema Corte ha sottolineato che quando viene contestata la capacità di testare, per ottenere l’annullamento del testamento non è sufficiente dimostrare una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive della persona che ha fatto testamento, ma va data la prova che la persona, al momento della stesura dell’atto di ultima volontà, era totalmente priva di coscienza dei propri atti e della capacità di autodeterminarsi.
E poichè lo stato di capacità costituisce la regola e l’incapacità è l’eccezione, compete a colui che afferma l’incapacità del de cuius di dimostrare detta incapacità. Fa eccezione l’ipotesi in cui il testatore si trovasse in condizione di totale e permanente incapacità, nel qual caso grava su chi intenda avvalersi del testamento dimostrare che è stato redatto in un intervallo di lucidità.
La prova in punto alle condizioni fisio-psichiche ed alla capacità di intendere e di volere dell’autore del testamento può essere data con qualsiasi mezzo: a titolo esemplificativo, mediante la documentazione medica attestante le condizioni di salute del testatore, le dichiarazioni testimoniali di coloro che, per ragioni di lavoro o personali, sono state accanto al testatore nel periodo in cui è stato redatto il testamento, ecc.

Fonte: Corte di Cassazione, sentenza n. 2239/2016 del 4.2.2016

La convivenza forzata non impedisce il divorzio

Per poter divorziare è necessario che la separazione personale si sia protratta ininterrottamente per un certo periodo di tempo, e più esattamente per sei mesi, in caso di separazione consensuale, o dodici mesi, qualora la separazione sia giudiziale.
Il termine decorre dalla data dell’udienza di comparizione dei coniugi davanti al Presidente del Tribunale, quando la separazione abbia seguito il tradizionale iter innanzi al Tribunale (ciò vale sia per la separazione consensuale, sia per quella giudiziale) ovvero dalla data di sottoscrizione dell’accordo di separazione concluso mediante la negoziazione assistita o innanzi all’ufficiale dello stato civile. Lo stabilisce l’art. 3 della legge sul divorzio.

In questo lasso di tempo i coniugi devono aver condotto effettivamente vite separate, senza ricostruzione della comunione materiale e spirituale tipica del matrimonio, senza riconciliarsi.
La riconciliazione non richiede una pronuncia giudiziale, ma un mero comportamento di fatto, determinato dal ripristino della vita matrimoniale tra le parti, con la convivenza e la prosecuzione del progetto di vita comune e della condivisione propria del rapporto coniugale.

Con una recente ordinanza, la Cassazione ha sottolineato che la mera coabitazione dei coniugi separati sotto lo stesso tetto non è di per sè sufficiente a dimostrare la riconciliazione, e dunque a bloccare il divorzio.

Il caso esaminato dai giudici di legittimità riguardava una coppia che aveva convissuto fino a pochi mesi prima del deposito del ricorso per divorzio. Convenuta in giudizio, la moglie aveva tentato di bloccare il divorzio, sostenendo l’intervenuta riconciliazione proprio in considerazione del rapporto di coabitazione.

La Suprema Corte ha evidenziato che la riconciliazione comporta il ripristino della comunione di vita e d’intenti, materiale e spirituale, che fonda il matrimonio. La semplice coabitazione, oggi assai frequente a causa della crisi economica, non è decisiva per dimostrare la riconciliazione, ma dev’essere valutata come elemento di prova, unitamente ad altri fattori, quali il comportamento delle parti, anche in sede processuale.
Nella vicenda esaminata, i giudici hanno tenuto conto del fatto che il rapporto tra i coniugi, fin dalla richiesta di separazione, era stato particolarmente conflittuale (il marito aveva presentato domanda di addebito della separazione alla moglie) ed inoltre era stato accertato che i coniugi convivevano, ma in stanze separate ed in un clima di forte tensione.

Per contrastare il divorzio, dunque, non basta dimostrare che la coabitazione non è venuta meno, ma occorre comprovare che l’avvenuto ripristino del consorzio familiare ed il superamento delle condizioni che avevano condotto i coniugi alla decisione di separarsi.

Fonte: Cass. civ. ordinanza n. 2360 del 5.2.2016

In arrivo il divorzio diretto

Non è passato neppure un anno da quando il legislatore, con la legge 55/2015, ha riformato il divorzio, diminuendo in modo consistente i termini che devono decorrere dalla separazione personale per poter chiedere lo scioglimento del vincolo coniugale: si è passati da tre anni a sei mesi, in caso di separazione consensuale, e dodici mesi, qualora la separazione sia stata giudiziale.

Una significativa accelerata dei tempi, che potrebbe venire presto superata con l’introduzione del divorzio diretto, vale a dire della possibilità per i coniugi di divorziare consensualmente, saltando il passaggio, oggi obbligato, della separazione personale.

E’ infatti in discussione alla Commissione Giustizia del Senato il Disegno di legge n. 1504 bis che modifica la legge 898/70 sul divorzio, prevedendo l’inserimento del nuovo art. 3-bis.
Con la nuova norma, il divorzio diretto potrà essere richiesto soltanto in particolari situazioni, e più esattamente è escluso quando vi siano
– figli minori
– figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave
– figli di età inferiore ai 26 anni non economicamente autosufficienti.

La richiesta di scioglimento del matrimonio (o cessazione degli effetti civili, quando si tratti di matrimonio concordatario) potrà essere presentata soltanto consensualmente, su accordo di entrambi, e dovrà seguire necessariamente un iter giudiziale.

Dovrà, dunque, essere presentato un ricorso al giudice, mentre non potranno trovare applicazione le nuove procedure della negoziazione assistita e dell’accordo dinnanzi al Sindaco.

Se la proposta diventerà legge, si avrà il completo lo svincolo del divorzio dalla separazione personale, evitando i tempi di attesa ed i costi del doppio passaggio.

Fonte: D.D.L. n. 1504 bis in www.senato.it

Quando cessa l’obbligo di mantenimento dei figli?

Contribuire al mantenimento della prole è un obbligo per i genitori che perdura anche oltre il compimento della maggiore età, fino al raggiungimento dell’autosufficienza economica da parte del figlio.

Esso consiste, in buona sostanza, nel dovere di fornire al figlio gli strumenti per renderlo indipendente, mediante un’istruzione ed una formazione professionale rapportate alle sue aspirazioni e capacità, oltre che alle condizioni economiche e sociali dei genitori.

All’obbligo del genitore corrisponde il diritto del figlio ad essere mantenuto fino a che non dispone di entrate proprie, in grado di garantirgli di provvedere autonomamente alle proprie esigenze, con appropriata collocazione in senso al corpo sociale.

Il rischio è, però, che si creino posizioni parassitarie, in cui il figlio, non più giovanissimo, si adagi in una situazione di comodo, continuando a vivere nella casa familiare ed a pesare sulle finanze di genitori sempre più anziani, pur disponendo di capacità lavorativa e della possibilità di essere economicamente indipendente.

La prova dell’effettivo raggiungimento dell’autonomia da parte del figlio spetta al genitore tenuto al versamento dell’assegno.

Al riguardo, la giurisprudenza ha più volte chiarito che non ha diritto ad essere mantenuto dai genitori il figlio che abbia concorso consapevolmente alla determinazione della propria non autosufficienza, ad esempio, lasciando immotivatamente un’occupazione lavorativa o rifiutando di accettare un impiego adeguato alla sua formazione o non attivandosi nella ricerca di un lavoro o prolungando nel tempo gli studi universitari senza profitto.

In questo senso si è pronunciata nuovamente la Corte di Cassazione, con una recente decisione riguardante la richiesta di un padre di essere esonerato dal concorrere al mantenimento di due figli maggiorenni, entrambi iscritti all’università, ma senza impegno (avevano entrambi dato pochi esami) e titolari di redditi da lavoro propri.

La Cassazione ha ribadito che “ il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne cessa ove il genitore onerato dia prova che il figlio abbia raggiunto l’autosufficienza economica, ma pure quando il genitore provi che il figlio, pur posto nelle condizioni di addivenire ad una autonomia economica, non ne abbia tratto profitto, sottraendosi volontariamente allo svolgimento di una attività lavorativa adeguata e corrispondente alla professionalità acquisita”.

La circostanza che i figli, pur avendo avuto dai genitori l’opportunità di frequentare l’università, avessero proseguito gli studi in modo inerte e senza trarne profitto è stata ritenuta valido motivo perla revoca del contributo paterno al loro mantenimento.

Fonte: Cass. civ. n. 1858/2016 del 1.2.2016

Separazione e divorzio veloci: come fare

E’ stata introdotta un anno fa, ma è ancora poco conosciuta. Si tratta dell’opportunità di addivenire alla separazione, al divorzio e alla modifica delle condizioni di separazione e divorzio senza dover comparire innanzi al Tribunale.
Come fare?
Al riguardo, il D.L. n. 132/2014 convertito dalla legge 162 del 10.11.2014 ha previsto due procedure:
– la “negoziazione assistita“, nella quale i coniugi, con l’ausilio dei rispettivi avvocati, la cui presenza è obbligatoria, si impegnano a collaborare lealmente ed in buona fede al fine di addivenire ad una definizione consensuale delle regole della loro separazione, del divorzio o della modifica delle condizioni di separazione e di divorzio.
L’impegno ha una durata prestabilita, decorsa la quale, se non è stato possibile addivenire ad una soluzione concordata, ciascuno è libero di assumere l’iniziativa giudiziale.
Se, invece, l’accordo viene raggiunto, esso viene sottoposto ad un controllo di regolarità presso la Procura della Repubblica, superato positivamente il quale, viene trasmesso, a cura degli avvocati, al Comune di celebrazione del matrimonio.
L’accordo è vincolante per le parti dalla data di sua sottoscrizione davanti agli avvocati.

– la dichiarazione dei coniugi direttamente davanti all’Ufficiale dello Stato civile: questa modalità è esperibile soltanto quando non vi siano figli minorenni, figli maggiorenni incapaci, portatori di handicap o economicamente non autonomi, e quando l’accordo non investa questioni di natura patrimoniale (mantenimento, trasferimenti immobiliari, ecc.). In questa seconda ipotesi, non è obbligatoria l’assistenza dell’avvocato, ma stante la delicatezza degli interessi in gioco, è sempre utile rivolgersi previamente ad un legale esperto della materia, che, valutata attentamente la specifica vicenda familiare, possandicare la fattibilità nel caso concreto di tale iter e fornire i suggerimenti giusti in merito al contenuto dell’accordo che verrà consegnato all’Ufficiale di Stato civile, al fine di evitare possibili problematiche future.

I vantaggi di queste procedure? Certamente la rapidità, poichè le procedure sono svincolate dai tempi di attesa dell’udienza davanti al Tribunale, purtroppo lunghi.
Inoltre, nell’ambito di un accordo, i coniugi possono regolamentare i reciproci rapporti personali e patrimoniali con ampia autonomia negoziale, disciplinando anche profili che il giudice della separazione o del divorzio contenzioso, per legge, non può esaminare, quali, a titolo esemplificativo, il trasferimento di proprietà o di quote immobiliari tra i coniugi o a favore dei figli, anche quale modalità alternativa o integrativa dell’assegno di mantenimento, la gestione di beni cointestati, il pagamento del mutuo, ed altre.

Fonte: Legge 162 del 10.11.2014 con cui è stato convertito in legge il D.L. n. 134 del 12.9.2014 recante “Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile”