Articoli

Assegnazione della casa familiare nella separazione: criteri, diritti e doveri

L’assegnazione della casa familiare è una misura prevista dal nostro ordinamento per tutelare il benessere dei figli minori e garantire loro stabilità e continuità abitativa anche dopo la separazione o il divorzio dei genitori. Questo provvedimento ha come obiettivo principale la protezione degli interessi della prole, permettendo loro di continuare a vivere nell’ambiente domestico che conoscono, riducendo al minimo i traumi e i disagi derivanti dalla disgregazione del nucleo familiare.

La normativa di riferimento

La regolamentazione dell’assegnazione della casa familiare è disciplinata principalmente dagli articoli 337 ter e 337 sexies del codice civile. Questi articoli stabiliscono i criteri e le modalità con cui viene deciso l’assegnazione dell’abitazione familiare, ponendo particolare attenzione agli interessi dei figli minori ed evidenziando anche i risvolti economici dell’assegnazione.

Quali sono i criteri di assegnazione?

 

  1. Interessi dei figli: la casa familiare viene assegnata al genitore con cui i figli minori convivono stabilmente. L’assegnazione mira a preservare l’ambiente domestico, le abitudini e le relazioni affettive dei minori, considerati fondamentali per il loro sviluppo equilibrato e sereno. L’assegnazione è prevista anche in presenza di figli maggiorenni non economicamente autosufficienti e anche in caso di figli maggiorenni  con gravi disabilità.

 

  1. Stabilità abitativa: viene valutato il tempo e la stabilità con cui il figlio ha vissuto nella casa familiare. La continuità abitativa è considerata un elemento cruciale per evitare ulteriori traumi ai bambini.

 

  1. Condizioni economiche: anche le condizioni economiche dei genitori vengono prese in considerazione.  Il tribunale valuta l’impatto economico dell’assegnazione sia sul genitore che mantiene il possesso della casa, sia su quello che ne perde la disponibilità.

 

  1. Diritti di proprietà: Se la casa familiare è di proprietà esclusiva di uno dei genitori, questo elemento viene considerato nella decisione, ma non prevale sugli interessi della prole. L’assegnazione può comunque essere disposta a favore dell’altro genitore se ciò risponde meglio alle esigenze dei figli.

Quanto dura l’assegnazione?

L’assegnazione della casa familiare ha una durata che è strettamente legata alle esigenze dei figli . Il diritto di abitazione cessa quando i figli diventano economicamente autosufficienti. In alcuni casi, l’assegnazione può essere rivista se cambiano le condizioni personali o economiche dei genitori o dei figli.

Quali diritti e doveri discendono dall’assegnazione?

  1. Usufrutto e diritto d’abitazione: Il genitore assegnatario non acquisisce la proprietà dell’immobile, né i diritti reali di usufrutto o di abitazione, acquista più semplicemente un diritto personale di godimento dell’immobile limitato al periodo necessario per il benessere dei figli.
  2. Manutenzione e spese: Le spese di manutenzione ordinaria dell’immobile restano a carico del genitore assegnatario, mentre quelle straordinarie spettano al proprietario dell’immobile.

Nel prossimo articolo esamineremo una recente sentenza della Corte d’appello di Milano che affronta proprio il tema dell’assegnazione della casa familiare.

 

Il diritto alla bigenitorialità: fondamentale per lo sviluppo armonioso dei bambini

Il diritto alla bigenitorialità è un principio fondamentale nel contesto giuridico familiare, sottolinea l’importanza dell’interazione continua e positiva dei genitori nella vita dei propri figli.

Questo concetto si basa sull’idea che, quando possibile, entrambi i genitori dovrebbero essere coinvolti nella crescita e nell’educazione dei loro figli, promuovendo così uno sviluppo sano e armonioso.

Innanzitutto, è importante comprendere che la bigenitorialità non riguarda soltanto il tempo trascorso con i figli, ma anche la partecipazione attiva e responsabile nell’assumere le decisioni cruciali per il loro benessere. Questo diritto è sancito nel nostro ordinamento dall’art. 337 ter del codice civile, con l’obiettivo di garantire che entrambi i genitori abbiano l’opportunità di costruire un legame significativo con i propri figli, contribuendo così alla formazione di una solida base emotiva e psicologica.

La bigenitorialità è diritto dei minori anche nelle situazioni di separazione o divorzio. In tali circostanze, è essenziale superare le divergenze personali e concentrarsi sul bene superiore dei bambini. La legislazione in molti paesi promuove accordi di affidamento e custodia condivisa, incoraggiando la cooperazione tra i genitori per garantire che i figli possano mantenere relazioni significative con entrambi i genitori e con i parenti di entrambi i rami.

Studi psicologici sostengono l’importanza della presenza di entrambi i genitori nella vita di un bambino. La diversità di stili educativi, quando gestita in modo coeso, può arricchire l’esperienza di crescita del minore, offrendogli una prospettiva equilibrata del mondo. Inoltre, la presenza costante di entrambe le figure genitoriali può svolgere un ruolo chiave nel fornire un sostegno emotivo stabile, fondamentale per il benessere psicologico dei bambini.

Tuttavia, è cruciale sottolineare che la bigenitorialità non è sempre possibile o appropriata in tutte le situazioni. Ci sono casi in cui la presenza di uno dei genitori potrebbe rappresentare un rischio per il benessere del bambino, come in situazioni di abuso o negligenza o quando la conflittualità tra i genitori è talmente elevata da non consentire loro alcuna forma di dialogo costruttivo. In tali circostanze, il giudice può intervenire per proteggere il bambino, prendendo decisioni mirate a garantire la sua sicurezza.

Per garantire l’efficacia del diritto alla bigenitorialità, è fondamentale promuovere una cultura di rispetto reciproco tra genitori, incoraggiando la comunicazione aperta e la collaborazione nella presa di decisioni importanti per i figli. La mediazione familiare può rappresentare un valido strumento per risolvere dispute e conflitti, facilitando la creazione di accordi che tengano conto delle esigenze di tutti i membri della famiglia.

In conclusione, il diritto alla bigenitorialità è un pilastro essenziale nel garantire il benessere dei bambini. Quando entrambi i genitori sono coinvolti positivamente nella vita dei propri figli, si crea un ambiente favorevole allo sviluppo sano e armonioso dei bambini, promuovendo relazioni stabili e un futuro equilibrato.

Separazione e divorzio in undici domande

1. Che differenza c’è tra separazione e divorzio?

Separazione personale e divorzio sono due istituti giuridici diversi. La separazione è un passaggio necessario per poter chiedere il divorzio.

Con la separazione si allenta il vincolo del matrimonio, in particolare vengono meno alcuni doveri tipici del matrimonio, in particolare il dovere di convivenza e il dovere di fedeltà. Altri doveri coniugali si allentano: il dovere di assistenza materiale, ad esempio, rimane vivo nel caso ci sia una differenza tra le condizioni economiche dei coniugi.

Con la separazione i coniugi vengono autorizzati a vivere separati e possono smettere di vivere sotto lo stesso tetto.

Se i coniugi sono in regime di comunione legale, la separazione fa cessare la comunione legale.

La separazione però non fa venir meno il matrimonio: due persone separate restano comunque sposate, e pertanto non possono sposarsi in seconde nozze e sono l’una erede dell’altra, allo stesso modo dei coniugi non separati.

Il vincolo matrimoniale viene meno soltanto con il divorzio: il divorzio scioglie il matrimonio, consente ai coniugi di riacquistare lo stato civile libero, perciò di potersi risposare, e fa venir meno i diritti ereditari reciproci.

 

2. Quando posso chiedere la separazione?

Si può chiedere la separazione quando la crisi coniugale è irreversibile e si ritiene di non poter proseguire la convivenza matrimoniale. Si tratta di una scelta molto personale e soggettiva.

 

3. Quando posso chiedere il divorzio?

Per chiedere il divorzio è necessario che siano passati almeno sei mesi dalla separazione, se consensuale.

Se la separazione è stata giudiziale, deve passare almeno un anno dalla prima udienza. Si può chiedere il divorzio anche se la causa di separazione è ancora pendente, ma è necessario che sia stata emessa una sentenza non definitiva di separazione.

4. Che differenza c’è tra separazione consensuale e separazione giudiziale?

Separazione consensuale e giudiziale sono solo le due modalità per arrivare alla separazione legale.

La separazione consensuale è possibile quando i coniugi raggiungono un accordo sulle regole della loro separazione e stabiliscono assieme l’assetto della loro vita da separati, decidendo, ad esempio, chi resterà nella casa familiare, con chi staranno i figli, in che modo provvedere al mantenimento dei figli, ecc.

La separazione consensuale richiede la capacità dei coniugi di confrontarsi e trovare assieme una soluzione condivisa.

Una volta trovato, l’accordo dev’essere formalizzato mediante un provvedimento del tribunale ovvero, senza passare in tribunale, mediante un accordo di negoziazione assistita, cioè un vero e proprio contratto, sottoscritto alla presenza degli avvocati, che regolamenta la separazione.

La separazione giudiziale, invece, è una vera e propria causa davanti al tribunale, al quale si ricorre quando non è possibile trovare un accordo consensuale.

5. Che differenza c’è tra divorzio consensuale e giudiziale?

Anche il divorzio, come la separazione, può seguire una procedura consensuale o giudiziale.

Il divorzio consensuale richiede l’accordo dei coniugi sulle condizioni del divorzio.

L’accordo può essere formalizzato mediante il ricorso al tribunale: il tribunale, sentiti i coniugi in un’unica udienza, decide in camera di consiglio ed emette la sentenza di divorzio. Una volta che la sentenza è diventata definitiva, il divorzio è efficace anche ai fini dello stato civile. Da quel momento è possibile passare a nuove nozze.

Come la separazione, anche il divorzio consensuale si può fare mediante un accordo di negoziazione assistita, cioè un contratto firmato davanti agli avvocati. La procedura di negoziazione assistita non richiede la comparizione dei coniugi in tribunale, ma ci sono una serie di adempimenti che svolgono gli avvocati. Con la negoziazione assistita il divorzio è efficace dalla data della firma dell’accordo.

Quando non è possibile trovare un accordo sulle condizioni del divorzio, è necessario rivolgersi al tribunale con un ricorso per divorzio giudiziale, dando così avvio a una vera e propria causa.

 

6. Che cosa viene deciso nella separazione?

Gli aspetti che vengono decisi nella separazione sono vari.

Se ci sono figli, nella separazione dev’essere deciso il loro affidamento e la loro collocazione abitativa, cioè con quale genitore manterranno la residenza anagrafica, i tempi di permanenza presso l’altro genitore, le modalità di contribuzione al loro mantenimento.

Inoltre, si decidono le sorti della casa familiare: quando ci sono figli, la casa viene assegnata al coniuge che ha con sé i figli in via prevalente. Assegnazione vuol dire che il coniuge ha diritto di rimanere a vivere nella casa coniugale, anche se non è di sua proprietà, fino a che i figli non raggiungono l’indipendenza economica.
In assenza di figli, si dovrà stabilire chi resterà a vivere nella casa.

Nella separazione, inoltre, si deve regolare il contributo al mantenimento del coniuge, se ve ne sono i presupposti. In generale, l’assegno per il coniuge viene stabilito quando c’è una differenza significativa tra i redditi dei coniugi.

Nella separazione giudiziale, può essere discussa anche la domanda di addebito della separazione, cioè l’accertamento che le ragioni della crisi familiare sono state determinate dal comportamento di uno dei due coniugi. Questo accade, ad esempio, nel caso in cui la separazione sia stata causata da maltrattamenti o dall’adulterio.

 

7. Che cosa viene deciso nel divorzio?

Nel divorzio viene disposto lo scioglimento del matrimonio e per il resto vengono esaminati gli stessi temi che abbiamo visto sopra per la separazione, tranne la domanda di addebito.

L’addebito, infatti,  può essere chiesto solo nella separazione giudiziale. Nel divorzio non si torna più a discutere delle cause che hanno portato alla separazione, a meno che le cause non siano ritenute rilevanti ai fini della domanda di assegno divorzile.

Anche sotto il profilo economico ci sono alcune differenze tra l’assegno di mantenimento del coniuge che viene stabilito nella separazione e l’assegno di divorzio.  L’assegno divorzile, che è l’assegno che spetta al coniuge meno abbiente, si basa infatti su presupposti diversi dall’assegno di mantenimento del coniuge della separazione.

 

8. Le regole della separazione o del divorzio possono essere cambiate?

Le regole fissate nella separazione e nel divorzio non restano fisse nel tempo e possono essere cambiate ogni volta che intervengono fatti nuovi rilevanti che vanno ad incidere sull’assetto definito nella separazione o nel divorzio.

Si considerano rilevanti tutti gli eventi che riguardano la condizione lavorativa (ad esempio, la perdita del lavoro, il pensionamento, il passaggio ad un impiego più redditizio, ecc.) o la salute (ad esempio, l’invalidità sopravvenuta) o le nuove situazioni familiari dei coniugi (ad es. la convivenza stabile con un nuovo compagno, la nascita di un figlio) o ancora la crescita dei figli (ad es. il trasferimento all’estero, il raggiungimento dell’indipendenza economica, ecc.).

La modifica delle condizioni di separazione e divorzio non può essere concordata privatamente, ma richiede un atto formale, analogo a quello che si vuole modificare. Sarà dunque necessario un nuovo accordo ratificato dal tribunale o dagli avvocati nell’ambito della procedura di negoziazione assistita.

In mancanza di accordo, si può avviare un apposito procedimento di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. Si tratta di un procedimento che ha un iter veloce e una procedura semplificata.

 

9. Cosa devo fare se mio marito/mia moglie non si vuole separare?

Nel nostro ordinamento la separazione è un diritto, pertanto è sufficiente la volontà di uno solo dei coniugi.
Se l’altro non si vuole separare, si può comunque ottenere la separazione avviando il procedimento di separazione giudiziale.

10. Esiste la separazione per colpa?

Non c’è nel nostro ordinamento una separazione per colpa, ma è possibile chiedere nella separazione giudiziale che il tribunale accerti che la fine del matrimonio è stata causata dal comportamento di uno solo dei coniugi. Si tratta della domanda di addebito della separazione.

Serve a dimostrare che la causa della crisi coniugale è stata determinata dal comportamento di uno dei due coniugi che ha violato i doveri coniugali stabiliti dalla legge. I casi più frequenti riguardano l’adulterio (che integra violazione del dovere di fedeltà) e l’abbandono del tetto coniugale (il coniuge che va via di casa senza giusta causa viola il dovere di coabitazione).

L’addebito della separazione ha l’effetto di far venir meno il diritto all’assegno di mantenimento, se presente, e di far venir meno i diritti ereditari del coniuge cui la separazione viene addebitata. Inoltre, comporta la condanna al pagamento delle spese legali.

 

11. Quanto dura una causa di separazione o di divorzio giudiziale?

La durata è quella di un procedimento giudiziale, in genere ci vogliono almeno due, tre anni per arrivare alla decisione conclusiva. Alle volte anche di più, dipende anche dalla tipologia degli accertamenti istruttori che vengono chiesti. Ad esempio, se viene richiesta una perizia sulle condizioni economiche dei coniugi, si devono considerare anche i tempi tecnici necessari  per l’esecuzione dell’indagine.

In ogni caso, sia nella separazione che nel divorzio giudiziale, il tribunale già dalla prima udienza stabilisce regole provvisorie che disciplinano i rapporti tra i coniugi e con i figli. Queste regole possono sempre essere modificate nel corso del procedimento su richiesta dei coniugi e comunque possono essere modificate dalla sentenza che chiude il procedimento.

 

 

Ascolto del minore: a che età un figlio può decidere se stare con mamma o papà?

Quando una coppia di genitori con figli minori decide di separarsi una delle questioni più importanti è rappresentata dalla scelta della “collocazione” del figlio, vale a dire con quale dei genitori il figlio resterà ad abitare.

Se i genitori sono d’accordo, il figlio può non avere una collocazione prevalente e trascorrere tempi equivalenti con la madre ed il padre: i genitori si dovranno organizzare per assicurare al minore uno spazio abitativo adeguato alle sue esigenze. In questo caso si parla di “collocazione alternata” e la scelta dell’abitazione del padre o della madre rileva esclusivamente ai fini della residenza anagrafica.

L’accordo tra i genitori può anche prevedere la collocazione prevalente del figlio con la mamma o il papà e stabilire che il figlio incontri l’altro genitore per tempi specifici, ad esempio uno o due pomeriggi alla settimana ed il fine settimana a settimane alternate.

Se i genitori non trovano un accordo

In caso di disaccordo tra i genitori sulla scelta della collocazione e dei tempi di frequentazione, la decisione è rimessa al Giudice che deve determinarsi tenendo conto del preminente interesse del figlio stesso.

Il criterio fondamentale cui la decisione del Giudice è improntata è il diritto del figlio a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e conservare i rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.  Un elemento essenziale per la decisione del Giudice è dato dall’audizione dei figli minori.

L’ascolto del minore è obbligatorio se ha compiuto 12 anni

L’ascolto dei minori, previsto dalla Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo, è obbligatorio nei procedimenti giudiziari che riguardano i figli ed in particolare in quelli relativi alla regolamentazione dei rapporti con i genitori.

L’articolo 337 octies del codice civile prevede che i figli che hanno compiuto i dodici anni di età devono essere sentiti dal Giudice, il quale nel decidere non potrà ignorare la volontà espressa dal figlio.

Se il minore ha meno di 12 anni

La norma prevede che l’audizione possa essere disposta anche in caso di bambini che hanno meno di dodici anni se “capaci di discernimento“, vale a dire capaci di elaborare concetti ed esprimerli in modo autonomo.

La valutazione sulla capacità di discernimento del minore infradodicenne è rimessa alla valutazione del giudice. Di norma, quando si tratta di bambini di età inferiore ai 12 anni, il Giudice si avvale dell’apporto di un consulente tecnico (di solito uno psicologo o un neuropsichiatra infantile) o dei Servizi Sociali, cui assegna il compito di valutare i rapporti genitoriali e la relazione tra i figli e ciascuno dei genitori.

Sul tema, la Cassazione con una sentenza del 2015, la n. 752, ha precisato che il giudice può valutare la capacità di discernimento del bambino con meno di 12 anni anche senza richiedere uno specifico accertamento tecnico e che l’attendibilità delle dichiarazioni di un minore non può essere messa in discussione solo per via della sua età.

Quanto conta la volontà manifestata dal minore

L’ascolto del minore ultradodicenne e anche di età inferiore se capace di discernimento, costituisce una modalità, tra le più importanti, di riconoscimento del suo diritto fondamentale ad essere informato e ad esprimere le proprie opinioni nei procedimenti che lo riguardano, nonché elemento di primaria importanza nella valutazione del suo interesse.

Nel decidere, il giudice è obbligato a tenere conto della volontà manifestata dal minore e può disattendere le dichiarazioni di volontà che emergono dall’ascolto soltanto vi siano delle ragioni specifiche ed in ogni caso motivando la sua decisione in maniera rigorosa e pertinente (lo ha stabilito la Cassazione nella sentenza n. 10776 del 2019).

Il Giudice può omettere l’ascolto del minore?

Sì, il giudice può decidere di non ascoltare il minore, quando ritenga che l’ascolto possa essere pregiudizievole per il minore oppure superfluo. In questo caso, il Giudice deve dare una motivazione approfondita.

Genitori in conflitto: interviene il coordinatore genitoriale

Nelle separazioni ad alta conflittualità, il coordinatore genitoriale, un professionista esterno alla famiglia e super partes nominato dal giudice, ha la funzione di proteggere i minori dalle possibili conseguenze negative della litigiosità dei genitori, affiancando e supportando i genitori nell’esercizio della responsabilità genitoriale e dell’affidamento dei figli.

In una recente sentenza relativa ad un caso di separazione caratterizzata da un’elevata conflittualità tra i coniugi, il Tribunale di Mantova ha disposto che i rapporti genitori-figli vengano monitorati da una figura terza rispetto alla famiglia, il cosiddetto coordinatore genitoriale o educatore professionale, un professionista incaricato di mediare il conflitto e fornire supporto concreto ai genitori.

Più esattamente, al coordinatore genitoriale sono stati assegnati i seguenti compiti:
a) monitorare l’andamento della relazione genitori-figli, mediando i rapporti e fornendo indicazioni correttive di eventuali comportamenti disfunzionali dei genitori;
b) aiutare i genitori nelle decisioni relative ai figli, vigilando sull’osservanza del calendario delle visite con il genitore non convivente ed in caso di disaccordo dei genitori, assumendo le decisioni opportune nell’interesse dei figli.
c) Il coordinatore genitoriale è tenuto, poi, a riferire l’esito del suo operato al Giudice Tutelare.

Il caso

La sentenza in oggetto è stata emessa a conclusione di un procedimento di separazione caratterizzato da un’accesa litigiosità tra i coniugi, genitori di due figli minori.
I coniugi avevano formulato entrambi domanda di addebito della separazione (la moglie sostenendo l’infedeltà del marito, il marito rappresentando il distacco affettivo ed atteggiamenti offensivi della moglie) e nel corso del giudizio avevano manifestato un profondo risentimento reciproco.
La conflittualità tra gli adulti si era proiettata anche nei rapporti con i figli: la moglie aveva più volte impedito gli incontri tra i figli ed il padre (genitore non convivente), frapponendo ostacoli alle visite ed impedendo i contatti telefonici, aveva inoltre interrotto indebitamente la frequentazione tra i minori e la famiglia paterna, come accertato dall’indagine dei Servizi Sociali e dalla consulenza tecnica d’ufficio (C.T.U.).
Peraltro, i Servizi Sociali e la C.T.U. avevano verificato, in ordine all’affidamento dei figli, che entrambi i genitori erano in grado di gestire singolarmente i minori e che, pertanto, la modalità di affidamento meglio rispondente all’interesse dei figli era l’affidamento condiviso.

La decisione

A fronte di tale delicata situazione, il Tribunale ha aderito alle conclusioni degli esperti (consulente tecnico e Servizi sociali), disponendo l’affidamento condiviso dei figli ad entrambi i genitori.

La diversa previsione dell’affidamento ad uno solo dei genitori (affidamento esclusivo) richiede, infatti, che risulti dimostrata l’inidoneità educativa o la manifesta carenza dell’altro genitore, cosa non presente nel caso in esame, dato che la consulenza e gli operatori sociali avevano riconosciuto la capacità genitoriale di ciascuno dei coniugi singolarmente.

E’ stato poi previsto l’esercizio separato della responsabilità genitoriale nei tempi in cui i figli sono con ciascuno dei genitori ed è stata disposta la collocazione abitativa dei figli con la madre, dopo aver accertato che i figli avevano instaurato un più solido legame affettivo con essa e che la madre era in grado di offrire maggiore stabilità e sicurezza psicologica.

Le condotte ostruzionistiche della madre, consistite nell’aver ostacolato i rapporti padre-figli, sono state sanzionate con la condanna della signora a risarcire i danni sofferti da quest’ultimo in conseguenza del comportamento ostacolante, in attuazione dell’art. 709 ter c.p.c. L’importo del risarcimento è stato fissato, in via equitativa in 1.000,00 euro.

In una vicenda così conflittuale è stata lungimirante la decisione del Tribunale di non lasciare i genitori da soli a gestire l’affidamento condiviso dopo la separazione: seguendo le indicazioni della C.T.U., i giudici di Mantova hanno previsto l’affiancamento di un coordinatore genitoriale, una figura professionale specializzata, con compiti di supporto, mediazione, risoluzione dei conflitti , oltre che di vigilanza sull’attuazione delle regole dettate nella sentenza e di intervento diretto nell’assunzione delle decisioni relative ai figli in caso di disaccordo dei genitori.

Del suo operato il coordinatore genitoriale dovrà riferire al Giudice Tutelare nel termine assegnato dal Tribunale.

 

Fonte: Tribunale di Mantova, sentenza 5.5.2017 (est. Bernardi)

Assegno di separazione e assegno di divorzio: i presupposti sono diversi

Dopo il clamore mediatico suscitato dalla recentissima sentenza in materia di assegno divorzile, la Cassazione ha chiarito che l’assegno per il coniuge nella separazione e l’assegno divorzile sono sorretti da presupposti diversi.

L’assegno di mantenimento fissato nella separazione, infatti, è finalizzato a consentire al coniuge economicamente più debole di conservare il tenore di vita di cui godeva quando era ancora convivente con l’altro.

 I coniugi separati sono ancora sposati

Nella separazione, infatti, il vincolo del matrimonio non viene meno, ma è soltanto allentato: sono sospesi – rilevano i giudici della Cassazione – soltanto i doveri di natura personale, quali la convivenza, la fedeltà e la collaborazione; al contrario, gli obblighi economici rimangono, assumendo forme diverse in considerazione della nuova situazione di fatto che vede i coniugi vivere separati.

Se durante la convivenza matrimoniale ciascuno dei coniugi provvede al mantenimento della famiglia in proporzione alle sue condizioni economiche, nella separazione coniugale il coniuge più abbiente deve versare all’altro un assegno periodico, proporzionato ai redditi, per contribuire al suo mantenimento.

La solidarietà economica viene meno solo con l’addebito della separazione

Nella separazione, dunque, permane il dovere di contribuire al mantenimento del coniuge meno abbiente.
Questo dovere di solidarietà economica viene meno soltanto in caso di addebito della separazione: se il coniuge economicamente più debole viene riconosciuto responsabile della crisi coniugale, per aver violato i doveri coniugali, perde il diritto all’assegno di mantenimento.

L’assegno di mantenimento va calcolato secondo il tenore di vita

L’obbligo di assistenza materiale tra i coniugi separati si realizza mediante il riconoscimento di un assegno di mantenimento in favore del coniuge meno abbiente e che non è in grado, con i propri redditi, di mantenere un tenore di vita analogo a quello che aveva, assieme all’altro, prima della separazione.

Nel quantificare l’assegno di mantenimento del coniuge separato si considera il tenore di vita consentito dalle risorse economiche di entrambi i coniugi: la prima verifica da fare è volta ad accertare se il coniuge che richiede l’assegno disponga di mezzi economici tali da permettergli o meno di conservare quel tenore di vita.

Per far ciò, il giudice dovrà tenere in considerazione la condizione economica complessiva del richiedente (i redditi, le proprietà, la disponibilità della casa coniugale, ecc.).

Una volta accertato che il coniuge che richiede l’assegno non ha mezzi adeguati a conservare il precedente tenore di vita, si procede alla quantificazione dell’assegno mediante una valutazione comparativa delle condizioni economiche di ciascun coniuge, nonché di particolari elementi quali, ad esempio, la durata della convivenza.

L’assegno di divorzio è diverso

L’assegno di mantenimento in favore del coniuge separato è cosa ben diversa dall’assegno divorzile: i presupposti e la normativa sono distinti e autonomi.

L’elemento essenziale di differenziazione è che con il divorzio il vincolo matrimoniale viene meno e con esso anche i doveri matrimoniali, incluso il vincolo di solidarietà coniugale, come recentemente affermato dalla sentenza n. 11504/2017 della Cassazione.

 

Fonte: sentenza Cassazione civile n. 12196 del 16.5.2017

 

Se desideri una consulenza legale sugli argomenti trattati in questo articolo contatta lo studio mediante il form. Saremo lieti di rispondere alle tue domande.

Adozione: quando l’età non conta

Il Tribunale dei minorenni di Bologna con un provvedimento innovativo ha concesso ad una coppia una deroga ai limiti d’età previsti per l’adozione.
Il dato burocratico dell’età è stato ritenuto secondario rispetto alla possibilità di dare ad un bambino in condizione di abbandono la possibilità di crescere in una famiglia.

La vicenda

Marco e Laura (i nomi sono di fantasia per rispetto della privacy) sono due coniugi italiani, sposati da circa sette anni, Marco ha 65 anni mentre Laura ne ha 51; stante l’impossibilità di avere figli biologici, hanno deciso di “donare” la vita in un modo forse ancora più meraviglioso e, sicuramente, più altruistico: adottando.

L’idoneità all’adozione internazionale

La coppia segue tutti i passaggi necessari: si rivolge al Tribunale per i Minorenni dell’Emilia Romagna e avvia le pratiche per richiedere l’idoneità all’adozione internazionale; durante la prima fase i coniugi vengono sottoposti a vari colloqui con psicologi ed esperti, al fine di valutare le loro capacità genitoriali e personali. Purtroppo, come a volte succede, il percorso subisce una prima interruzione: il T.M. decreta l’inidoneità dei coniugi all’adozione internazionale.

Marco e Laura però non si perdono d’animo e propongono reclamo avverso il provvedimento. La Corte d’Appello di Bologna accoglie il reclamo e riconosce la piena attitudine di Marco e Laura all’adozione internazionale.

I coniugi hanno finalmente la possibilità di realizzare il proprio progetto genitoriale, accogliendo un bambino presso il proprio nucleo.

L’Ente e l’abbinamento con il bambino

A questo punto, infatti, non rimane che rivolgersi ad un Ente accreditato che curi le pratiche dell’abbinamento: quel percorso, cioè, che accosta un bambino straniero in stato di adottabilità con i due futuri nuovi genitori, attraverso una serie di passi che porteranno il minore ad entrare gradualmente nella nuova famiglia adottiva.

La coppia segue tutti i corsi predisposti dall’Ente e nel frattempo vengono presi i contatti con un istituto sudamericano: in pochi mesi si concretizza l’abbinamento e la coppia conosce – tramite fotografie e relazioni – il piccolo Francisco (anche questo nome di fantasia) che, a sua volta, riceve informazioni sulla sua futura famiglia italiana che si sta preparando ad accoglierlo.

L’autorizzazione negata

Resta da ottenere l’autorizzazione da parte della C.A.I. (Commissione per le Adozioni Internazionali) e qui la storia di Marco e Laura affronta un nuovo ostacolo: dalla Commissione, infatti, giunge una notizia “inaspettata”: c’è un problema con l’età di Marco.

Da un controllo sulle età dei genitori e del minore, è risultato che Marco ha 10 anni e 5 mesi più del piccolo Francisco e questo rende inidonea la coppia.

La Legge sull’adozione (legge n. 184/1983), infatti, prevede che tra il figlio minore e i genitori debbano intercorrere più di diciotto anni e meno di quarantacinque anni: tale forbice può essere parametrata anche solo ad uno dei coniugi (se più giovane), purché l’altro non superi di più di dieci anni il limite massimo imposto dalla legge.

Nel caso, poiché Marco ha 65 anni, la coppia avrebbe potuto adottare un bambino dai 10 anni in su, perché in tal modo non si sarebbe oltrepassata la “linea limite” dei 45+10 anni tracciata dalla deroga normativa. Francisco, invece, ha solo 9 anni e mezzo.

Lo sgomento dei coniugi è inevitabile, soprattutto considerati i mesi di attesa e di preparazione.

Il ricorso al Tribunale dei minori

Ma neppure questo nuovo ostacolo ferma Marco e Laura: depositano un nuovo ricorso al Tribunale dei minorenni per chiedere una deroga al limite della differenza d’età, tenendo conto dell’interesse del minore ad essere adottato.

Nel ricorso, i coniugi rappresentano le circostanze specifiche della vicenda: il bambino era di fatto già entrato “in contatto” con i futuri genitori (seppur “solo” attraverso foto e informazioni) ed era stato già“preparato” al suo futuro ingresso in una famiglia che lo avrebbe potuto finalmente crescere serenamente; a questo si aggiungeva poi che il minore appartiene ad una minoranza etnica (afro-colombiana) e tale caratteristica, unita all’età ormai pre-adolescenziale, avrebbe sicuramente compromesso una futura adozione nazionale/internazionale; erano trascorsi già diversi anni dal momento in cui il bambino era stato dichiarato in stato di adottabilità e affidato presso un istituto familiare. Doveva assolutamente considerarsi, infine, come il limite massimo di dieci anni prescritto dalla Legge veniva oltrepassato di soli cinque mesi e questo non poteva certo pregiudicare il benessere di un minore, il quale deve venire sempre posto prima di ogni cosa.

La decisione

L’esito del ricorso non era affatto scontato. I precedenti giurisprudenziali sono pochi ed era il primo caso di questo tipo che il Tribunale per i minori di Bologna si trovava ad affrontare.

Ma tutto si è risolto al meglio: il ricorso è stato accolto in tempi rapidi (due settimane soltanto) e il T.M. ha riconosciuto la deroga per il caso specifico di Marco e Laura, concedendo l’autorizzazione a procedersi con l’adozione di Francisco.

Ciò che il Tribunale ha considerato prioritario è stato salvaguardare l’interesse del minore: per Francisco c’era il concreto rischio di non poter essere più adottato a causa dell’età e degli altri fattori indicati sopra.

Grazie alla sensibilità dei giudici ed alla determinazione di Marco e Laura, Francisco potrà avere un futuro e una famiglia in Italia.

(Avv. Federico Tufano)

Fonte: decreto del T.M. dell’Emilia Romagna dell’11-22 maggio 2017.

Assegno di divorzio: il tenore di vita non conta più

Nuovi parametri di riferimento per il riconoscimento dell’assegno di divorzio: per stabilire se il coniuge divorziato ha diritto all’assegno post-coniugale non va valutato il tenore di vita del matrimonio, ma soltanto l’autosufficienza economica del coniuge richiedente.

Questo è quanto stabilito dalla recentissima sentenza della Corte di Cassazione n. 11054 depositata il 10 maggio scorso, oggetto, per la sua portata innovativa (e per la notorietà della parti in causa), di una notevole attenzione mediatica.

Con questa sentenza, infatti, i giudici della Cassazione hanno rivoluzionato l’orientamento giurisprudenziale in materia, giungendo a conclusioni nuove, destinate ad incidere sull’assetto economico di molti ex coniugi.

Dal tenore di vita della famiglia…

In precedenza, infatti, si era consolidata l’interpretazione per cui l’assegno di divorzio andava riconosciuto tenendo conto del tenore di vita tenuto dalla famiglia quando era unita. E dunque l’assegno divorzile poteva essere riconosciuto anche in favore dell’ex coniuge che avesse una condizione economica tale da poter essere autosufficiente.
Più esattamente, l’assegno veniva riconosciuto anche se il coniuge richiedente aveva redditi e proprietà, soltanto per il fatto che l’altro coniuge versava in una condizione economica più florida del richiedente.
Questa interpretazione era tesa a tutelare il coniuge più debole, generalmente la moglie, che aveva sacrificato la propria carriera lavorativa e rinunciato ad ambizioni professionali per occuparsi della famiglia, alla cura dei figli e della casa, così permettendo al marito di dedicarsi alla carriera e di garantire alla famiglia un determinato tenore di vita .
Cessato il matrimonio, al coniuge meno abbiente veniva riconosciuto l’assegno, in modo da garantirgli di conservare quel tenore di vita conseguito dall’altro coniuge anche grazie al suo sacrificio.

… all’autoresponsabilità economica

Con la recente sentenza, la Cassazione cambia completamente prospettiva.
Il tenore di vita non va più tenuto in considerazione, ma quello che conta è l’autosufficienza economica.
Con una nuova interpretazione dell’art. 5 della legge 898/1970 sul divorzio, la Cassazione enfatizza la funzione assistenziale dell’assegno di divorzio, evidenziando che l’assegno va disposto nei casi in cui il coniuge non abbia risorse economiche tali da renderlo indipendente.

Non conta più il tenore di vita del matrimonio: con il divorzio il rapporto matrimoniale si estingue sul piano personale e patrimoniale, fare riferimento al tenore di vita del matrimonio rappresenta una forzatura, determinando il perdurare tra le parti di un vincolo che di fatto è sciolto.

Il criterio cui i giudici chiamati a decidere dell’assegno di divorzio devono attenersi è l’autoresponsabilità economica, secondo cui ciascuno, indipendentemente da chi abbia sposato e dal tenore di vita della famiglia, deve provvedere a sè stesso autonomamente.

Nessun assegno dunque verrà riconosciuto, dunque, a chi sarà in grado di cavarsela da solo, anche se il tenore di vita condotto con i propri mezzi sarà inferiore a quello tenuto durante il matrimonio.

Autosufficienza economica: quali sono gli elementi da valutare?

Per decidere se vi sono i presupposti dell’assegno il giudice dovrà valutare soltanto vale a l’indipendenza o l’autosufficienza economica del coniuge che richiede l’assegno divorzile.

In concreto, gli aspetti che il giudice dovrà valutare sono i seguenti:

– l’esistenza di redditi di qualsiasi specie
– la capacità e le possibilità effettive di lavoro
– la proprietà di beni immobili e mobili
– la disponibilità di una casa di abitazione.

Naturalmente, spetterà alla parte che chiede l’assegno dimostrare le proprie condizioni economiche, con documenti, testimonianze ed ogni altra prova utile a provare che la domanda di assegno divorzile è fondata.

Il principio di solidarietà economica per quantificare l’assegno

Una volta accertato che il coniuge non è autosufficiente e dunque vi sono i presupposti per il riconoscimento dell’assegno, la misura andrà determinata dal giudice tenendo conto del principio di solidarietà economica, ovvero del vincolo solidaristico che permane tra gli ex coniugi.
Andranno valutati il contributo dato da ciascuno alla conduzione della famiglia e alla formazione del reddito e del patrimonio dell’altro e di quello comune, la durata del matrimonio e le ragioni della decisione, secondo quanto stabilito dall’art. 5 della legge sul divorzio.
Fonte: Sentenza Cassazione civile n. 11504 del 10.5.2017

Omeopatia o cure tradizionali? Quando decide il giudice

Nell’affidamento condiviso le decisioni sulle terapie sanitarie per i figli vanno assunte di comune accordo tra i genitori, trattandosi di “decisioni di maggiore interesse” e cioè decisioni che riguardano aspetti particolarmente importanti della crescita dei figli.
In caso di contrasto tra i genitori sulla scelta delle cure per il figlio è possibile rivolgersi al giudice, il quale prende la decisione in luogo dei genitori tenendo conto esclusivamente dell’interesse del figlio.
In quest’ottica, il Tribunale di Roma in un recente provvedimento (ordinanza 16.2.2017 – est. Velletti) ha stabilito che, quando i genitori non sono d’accordo sulle terapie da far seguire al figlio, devono prevalere le terapie consigliate dal pediatra e dai medici specialisti che hanno in cura il minore: la preferenza, dunque, va alla medicina tradizionale.

La vicenda

Il caso deciso dal Tribunale di Roma riguardava una vicenda in cui tra genitori già in conflitto per altre questioni afferenti la responsabilità genitoriale era insorto un problema di salute della figlia (otite divenuta, poi, ipoacusia).
Il padre voleva seguire le terapie prescritte dalla struttura sanitaria che aveva visitato la minore, la madre, invece, preferiva una cura omeopatica prescritta dal medico di fiducia.
Il Tribunale, assumendo la decisione al posto dei genitori, ha stabilito che la bambina dovesse essere curata secondo la terapia prescritta dalla struttura sanitaria, e dunque con i farmaci tradizionali, prescrivendo al genitore più diligente di accompagnare la figlia alle visite, anche in assenza dell’altro genitore.

E in caso di disaccordo sulle vaccinazioni?

Altra questione sulla quale i genitori avevano opinioni discordanti erano le vaccinazioni.
Anche riguardo ad esse, il Tribunale di Roma ha previsto che i genitori dovessero seguire le indicazioni del pediatra di base in punto alle vaccinazioni cui sottoporre la minore.
Se il pediatra riterrà opportuno sottoporre la minore alle vaccinazioni – ha stabilito il giudice – il genitore più diligente sarà autorizzato a condurre la minore nelle strutture specializzate per eseguire le vaccinazioni indicate dal pediatra e per sottoscrivere i relativi consensi, anche in assenza del consenso dell’altro genitore, ma informandolo di quanto fatto.

Se il genitore dissenziente non rispetta le indicazioni del giudice

Nel provvedimento in oggetto, il genitore contrario alle vaccinazioni e più restio alle cure tradizionali è stato espressamente invitato a non ostacolare la piena attuazione delle prescrizioni del giudice, con avvertimento che, in caso di condotte ostruzionistiche, sarebbero stati applicati a suo carico i provvedimenti sanzionatori di cui all’art. 709 ter c.p.c.

 

Fonte: Ordinanza 16.2.2017 del Tribunale di Roma (est. Velletti).

Parto anonimo: il figlio ha diritto a conoscere le proprie origini

La Cassazione si è pronunciata a Sezioni Unite su una questione particolarmente delicata che vede contrapposto il diritto del figlio abbandonato alla nascita a conoscere le proprie origini ed il diritto della madre a rimanere nell’anonimato.
Con la sentenza n. 1946 pubblicata il 25 gennaio scorso, i giudici della Cassazione hanno stabilito che se il figlio manifesta il desiderio di conoscere le proprie origini, il giudice deve interpellare la madre, per verificare se intenda ribadire o meno la volontà di rimanere anonima manifestata al momento della nascita.
La madre dovrà essere sentita attraverso un procedimento che garantisca la massima riservatezza, secondo le prassi già in uso in alcuni tribunali italiani. Il diritto del figlio di accedere alle informazioni sulla propria origine e sull’identità dei genitori biologici non può essere sacrificato aprioristicamente soltanto perchè la madre al momento del parto ha dichiarato di voler rimanere anonima: non si può, infatti, dare per scontato la madre, a distanza di tempo, intenda conservare l’originaria scelta dell’anonimato.
Soltanto le caso in cui la madre confermi la volontà di rimanere anonima, il diritto del figlio di conoscerla verrà compresso. In caso contrario, il figlio potrà ricevere le informazioni sull’identità della madre.
Si realizza in questo modo un giusto bilanciamento tra il diritto alle origini del figlio ed il diritto all’oblio della madre.

Il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini

La legge 184 del 1983 in materia di adozioni, consente alla persona adottata di poter accedere alle informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei genitori biologici mediante un particolare procedimento.
La domanda può essere presentata dall’adottato dopo il raggiungimento dei 25 anni d’età (a partire dai 18 anni se vi sono gravi motivi di salute fisica o psichica). Giudice competente è il tribunale per i minorenni del luogo di residenza del richiedente.
Nel procedimento, il tribunale per i minorenni verifica, mediante l’ascolto del diretto interessato e ai altre persone, secondo opportunità, ed eventualmente mediante indagine sociale le possibili conseguenze sull’equilibrio psico-fisico del richiedente. Una volta accertato che l’accesso alle notizie sull’origine e sui genitori biologici non reca turbativa all’equilibrio psico-fisico del richiedente, il tribunale per i minorenni autorizza l’accesso alle notizie richieste.
La legge stabilisce, però, che l’accesso alle informazioni non è consentito nei confronti della madre che abbia scelto l’anonimato, con apposita dichiarazione resa alla nascita (art. 28, ottavo comma, legge 184/83).

L’incostituzionalità della norma

Sulla norma citata si è pronunciata nel 2013 la Corte Costituzionale (sentenza n. 278/2013) dichiarandone l’incostituzionalità nella parte in cui escludeva in maniera irreversibile la possibilità del figlio di accedere alle informazioni sulla madre.
La sentenza della Corte Costituzionale è giunta dopo la condanna inflitta all’Italia dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel caso Godelli (caso Godelli contro Italia sent. CEDU 25.9.2012): la Corte di Strasburgo aveva giudicato la normativa italiana contraria all’art. 8 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo per il mancato bilanciamento dei due contrapposti interessi – quello del figlio di conoscere le origini e quello della madre di rimanere anonima – , in quanto vietando al figlio di avere informazioni sulla propria origine in caso di parto anonimo veniva privilegiato il diritto materno all’oblio.

Il vuoto normativo e le prassi diversificate nei tribunali

La dichiarazione di incostituzionalità della norma avrebbe dovuto essere colmata dal legislatore, che tuttavia non è ancora intervenuto: il progetto di legge è fermo in Commissione Giustizia alla Camera.
E così, nei diversi tribunali per i minorenni erano state attuate prassi difformi: alcuni ammettevano che, alla richiesta del figlio di conoscere l’identità della madre, la madre che aveva chiesto l’anonimato al momento del parto potesse essere interpellata dal giudice, per verificare che la volontà di non essere nominata fosse ancora attuale; altri tribunali, seguendo una interpretazione più formalistica, negavano questa possibilità, poiché non espressamente prevista dalla legge.

La decisione della Cassazione a Sezioni Unite

Nel contesto sopra delineato è intervenuta la Cassazione a Sezioni Unite. La recente sentenza fa chiarezza ed uniforma l’interpretazione: il diritto della madre all’oblio e quello del figlio a conoscere le proprie origini vanno adeguatamente contemperati.
Il figlio ha diritto di conoscere le proprie origini e il suo diritto non può essere sacrificato e compresso per il fatto che la madre, al momento del parto, ha dichiarato di rimanere anonima.
Il giudice deve interpellare la madre e verificare l’attuale volontà della medesima: non può infatti essere escluso a propri che la madre, a distanza di tempo, desideri revocare la scelta iniziale dell’anonimato. La madre va ascoltata con modalità adeguate ad assicurare la massima riservatezza.
Il figlio non potrà accedere alle proprie origini nel caso in cui la madre confermi di voler rimanere anonima: il diritto del figlio trova un limite invalicabile nella conferma della volontà dell’anonimato da parte della madre.

Fonte: Cass. civ. Sez. un. sentenza n. 1946 del 25.1.2017